di Franco Fussi
In La voce del cantante vol II, Ed. Omega Torino, 2003
In foniatria, si ritiene giustamente che il costante mantenimento di una corretta funzionalità d’organo garantisca una buona qualità vocale. E su questo penso siano certamente d’accordo sia i maestri che i cantanti lirici. Dobbiamo però ammettere che se l’espressione canora venisse prodotta ed esercitata solo secondo criteri funzionali fisiologici non avremmo più le possibilità espressive e varie che la vocalità ha invece da sempre saputo creare, né avremmo assistito alla sua libera evoluzione.
Tra l’altro, chissà perché, ci capita a volte, e perfino nella lirica, di emozionarci maggiormente all’ascolto di voci qualitativamente “imperfette”, o dalle emissioni non sempre ortodosse, rispetto a esecutori tecnicamente ineccepibili ma, per così dire, “freddini”.
Il livello segmentale della comunicazione musicale e della vocalità artistica, quello legato al codice dello specifico linguaggio, e dunque al “raziocinio”, sembra dunque non essere sufficiente alla verità dell’ascolto: il tecnicismo fa sicuramente la bravura dell’esecutore, e presuppone una coscienza fisiologica dell’emissione, quindi ha decisamente una azione preventiva ragionando in termini foniatrici, ma l’arte e l’interprete sono un’altra cosa e prevedono sempre e comunque la presenza del livello soprasegmentale, l’istinto interpretativo, in questo caso musicale e vocale. Ritroveremo sempre la compresenza di entrambe questi elementi di fronte ad una grande voce, sia pure in diversa misura.
In fondo é proprio uno speculare sbilanciamento nel rapporto tra questi due fattori che, ad esempio nella lirica, fece contrapporre i sostenitori di Renata Tebaldi a quelli di Maria Callas. E forse proprio per questo Maria Callas resterà la “Voce” del secolo passato, nonostante le colpe di un “daimon” inferocito che ha permesso in pochi anni al suo livello istintuale di prendere un sostanziale sopravvento e divorarsi la sua originaria perfezione tecnica e la sua salute vocale. Penso che molto spesso sia proprio questo a succedere quando un cantante si “brucia” in pochi anni: c’è un qualche fuoco interiore istintuale, e non sempre tuttavia legato alla vocalità, che se lo porta via sopraffacendo ogni criterio razionale di economia tecnico-vocale. Ed ancora di più in stili in cui qualità e correttezza di emissione, in senso fisiologico, sembrerebbero un optional. Pensiamo allora a Freddie Mercury, Mia Martini, Judy Garland, e tanti altri.
Sicuramente in queste vocalità diviene più evidente come l’adeguare il proprio modo fonatorio ad uno stile e ai suoi codici non è necessariamente coincidente con una gestione sempre fisiologica dell’organo vocale. La corrispondenza tra eufonia stilistica ed eufonia fisiologica, cioè l’adeguarsi di uno stile vocale a regole fisiologiche di normalità ed economia d’uso, non è dunque obbligatoria.
Ad esempio si ritiene che molte voci del “belting”, che rappresenta una delle espressioni vocali del musical americano e del teatro di Broadway, diventino ben presto voci affaticate e a precoce insorgenza di patologie delle corde vocali, con giudizio negativo dei maestri di canto lirico per questo tipo di vocalità rispetto ai criteri di eufonia fisiologica; e questo a causa dell’alta pressione che viene generata sotto le corde vocali in concomitanza ad una posizione laringea elevata e a causa del trascinamento del registro pieno con voce di petto oltre i limiti superiori di ambito tonale, là dove cioè non viene compiuto, o viene ritardato, quello che è definito il “passaggio” di registro dai toni centrali agli acuti. Il tutto perché questi maestri non considerano che l’eufonia stilistica di questo genere di vocalità impone quel tipo di emissione.
Se fisiologia e stile coincidessero, come potremmo parlare di “fisiologia” della vocalità rock, caratterizzata da voce graffiata, “sporca”, cioè con bande di rumore e comportamento aperiodico dell’onda mucosa, ipercinesia fonatoria, ipertono delle false corde?
Se dovessimo parlare di una buona emissione vocale solo in termini fisiologici saremmo costretti a condannare e bandire ogni segnale caratterizzato a livello spettrale da diffusione armonica e bande di rumore, cioè ogni suono che acusticamente perde in periodicità e sconfina nel rumore, caratterizzato sul piano esecutivo da modalità di emissione gridata, graffiata, pressata, con qualità rauca o soffiata. Quando parlare di bella voce? Quali fattori acustici tenere in considerazione come range di normalità per ogni genere di vocalità artistica?
Se indaghiamo, secondo protocolli standard, le caratteristiche acustiche del suono emesso, la nostra valutazione potrebbe essere aleatoria perchè potrebbe risultare non rapportabile a criteri di giudizio che coinvolgono vere e proprie concezioni estetico-stilistiche.
Ad esempio, nella musica colta occidentale, “espressioni” quali “bella voce” o “colore omogeneo” o “l’ideale sonoro-vocale” non si riferiscono semplicemente alle caratteristiche di una voce spettralmente priva di bande di rumore con basse percentuali di perturbazione (quelle che definimao a livello fisico-acustico jitter e shimmer), o in cui la gestione delle cavità di risonanza sia teso alla ricerca di una uguaglianza timbrica su tutta l’estensione, o di una perfetta fusione percettiva delle voci di un coro, ma investe criteri valutativi del bello estetico che hanno a che fare con le radici della tecnica vocale in oggetto e della sua evoluzione. Evoluzione estetica che risponde certamente non solo a storiche necessità psicoacustiche ma anche a parallele modifiche nelle abitudini percettive delle ricezione della voce umana e quindi nel “gusto” del fruitore.
A tale riguardo, per fare un esempio, la letteratura relativa alla voce cantata suggerisce che alcuni comportamenti vocali possano essere cambiati negli ultimi 90 anni di storia fonografica. Ad esempio, nei cantanti degli anni ‘30, la frequenza del vibrato era valutata intorno a 6-7 oscillazioni al secondo e in qualche caso anche più ampia, mentre oggi viene valutata come normale per frequenze di oscillazione intorno ai 5-6 cicli al secondo. Tale cambiamento relativo alla velocità del vibrato sembra riflettere essenzialmente un cambiamento nell’estetica, come è analogamente successo anche per gli strumentisti, ad esempio negli anni ‘40, riguardo all’abuso di portamento da parte dei violinisti. Inoltre, nel passato, le variazioni di ampiezza e di frequenza del vibrato erano più contenute, quindi percettivamente il vibrato risultava meno evidente e più stretto, tanto che all’ascolto a noi oggi appare più simile ad un tremolo, mentre un vibrato ideale è oggi più lento e più ampio come variazioni in ampiezza e frequenza
Di certo l’ideale sonoro-vocale nella vocalità colta occidentale (almeno nella seconda metà del II millennio) è individuabile tecnicamente nei due principali fattori di “focus” vocale evidenziati dalla ricerca foniatrica, che sono la sintonizzazione della I formante alla nota fondamentale e la localizzazione e intensità della III formante (o formante di canto).
Si attribuisce invece al patologico il corrispettivo estetico caratterizzato da diffusione armonica, sconfinante acusticamente nel rumore (come nelle modalità di emissioni gridate, graffiate, rauche). Ma se consideriamo la realtà compositiva del canto contemporaneo classico e, soprattutto, la vocalità moderna dei generi vocali extracolti, a iniziare dal jazz, vedremo che sotto il profilo stilistico suono e rumore entrano a far parte della stessa eufonia.
Analogamente a quanto è accaduto nelle arti visive per il bello estetico, come criterio di giudizio dell’opera d’arte, anche per il canto hanno perduto significato regole e leggi, di estrazione anatomofunzionale, per le quali il belcantista sarebbe una “voce” eufonica ed il cantante rock un cattivo gestore dell’apparato vocale. L’espressione artistica è allora una modalità comunicativa che, nello specifico stilistico:
– ha regole estetiche che possono sovvertire il comune concetto fisiologico di eufonia,
– ha un costo di esercizio che può anche essere alto e non sempre vuole essere contenuto (anche se la maggior parte delle volte può essere contenuto),
– a volte sfrutta e richiede il pervertimento della fisiologia indagando e scandagliando suono e rumore nelle loro estreme possibilità.
Nel XVIII e XIX secolo il timbro aveva principalmente due compiti: da un lato serviva a far emergere e risaltare i contorni dei disegni delle varie voci e scandire la suddivisione formale, dall’altro era utilizzato come elemento fine a se stesso per connotare il colore individuale di una emissione (cioè secondo regole formantiche).
E’ probabile che l’ipertrofia amplificatoria dell’intensità vocale, del volume, attraverso l’estremizzazione nell’utilizzo dell’apparato di risonanza, a partire dalla II metà dell’800, abbia avviato quella emancipazione del timbro che, in grado estremo, ha legittimato e accreditato l’emancipazione del rumore come sopraggiunta necessità espressiva, fino alla vocalità colta contemporanea e alle diverse possibilità offerte dall’elettronica di scomporre un suono. Secondo un processo che dall’amplificazione della terza formante con produzione della cosiddetta formante di canto, è evoluto con l’accentuarsi di tecniche di “affondo” (come le chiamano i maestri di canto lirico), l’accettazione espressiva di suoni sporchi (cioè di bande di rumore spettrale) a scopo drammatico, un più attento interesse per l’articolazione del fonema consonantico, cioé al segnale non periodico, e alle possibilità espressive del fonema amplificato, ai rumori extralaringei ed extraarticolatori, egressivi ed ingressivi, alla voce manipolata dall’elettronica.
Come possiamo allora indagare scientificamente usi artistici ed esigenze stilistiche della vocalità così multiformi e produrre delle normative acustiche e percettive di riferimento sulla qualità e appropriatezza del segnale acustico ad un esercizio corretto dell’emissione? Specie quando corretto può significare patologico!
Dobbiamo dunque individuare parametri acustici e stabilire criteri fisiologici senza rinnegare o tradire parametri e criteri stilistici.
Sul piano della ricerca foniatrica non sono mai state fornite linee-guida che qualificassero il materiale umano sottoposto ad analisi secondo standard riconosciuti. Il dilemma di trovare sufficiente numero di cantanti per progetti di ricerca ha ulteriormente complicato le cose, essendo spesso troppi pochi i soggetti uniformi per categoria per ottenere statistiche significative. Ciò ha sempre reso difficile quantificare i risultati delle ricerche.
Bunch e Chapman hanno proposto una classificazione tassonomica dei cantanti (almeno per la tradizione vocale occidentale) a scopo di ricerca scientifica che potrà alleviare un certo numero di problemi chiave, basata sul grado di performance e sulla tipologia professionale. Essi descrivono 9 categorie (esecutori di fama mondiale, star internazionali, star nazionali, star regionali, star locali, insegnanti di canto, studenti di canto tra 18 e 25 anni di scuole o conservatori, studenti di canto amatoriali, bambini) ed elencano ed illustrano 18 tipi di canto basato su tradizioni vocali occidentali (opera, musica contemporanea, musical, concerto/oratorio/recital, esecutori di sale di registrazione, pop, rock, rap, cabaret, jazz, folk, gospel e soul, country, pianobar/pub/karaoke, vocalità liturgica, musica etnica, gruppi vocali, artisti di strada/buskers), con proprie specificità di produzione vocale.
La strumentazione che può oggi aiutarci nell’individuare le caratteristiche acustiche-percettive e fisiologiche della produzione vocale sono riassunte nella presente tabella. Come vediamo possiamo studiare segnali acustici e non acustici dell’emissione di un suono.
Fino ad oggi la ricerca, sempre più attenta all’impostazione della voce del cantante d’opera, ha oggettivato almeno due caratteri determinanti del suono emesso dal cantante lirico, volti a rendere ottimale il rapporto udibilità e qualità vocale rispetto al costo fisiologico d’esercizio.
Essi sono analizzabili e riproducibili attraverso la spettrografia, e sono:
… la corrispondenza del rinforzo del primo gruppo di armonici con la nota fondamentale, che riceve perciò un sostanzioso aumento di intensità, tipica delle voci femminili e delle voci leggere in genere, ma anche dei falsettisti (specificamente nel registro di fischio e nel falsetto professionale), detto fenomeno di sintonizzazione della prima formante con la frequenza fondamentale, perlopiù determinato dall’ampliamento d’apertura della bocca nei toni acuti
… e il rinforzo di un gruppo di armoniche medio-acute (intorno a 2500-3000 Hz) definito come “formante del cantante”, importantissimo per l’udibilità delle voci maschili sopra l’intensità dell’orchestra, realizzato attraverso i classici dettami di “copertura” del suono (abbassamento laringeo, innalzamento del velo del palato, abbassamento della lingua).
… Alcuni ricercatori stanno inoltre studiando la presenza di un picco armonico intorno agli 8000 Hz che caratterizzerebbe colori di voce particolarmente accattivanti per caratteristiche di penetrazione acustica e brillantezza timbrica.
La “formante di canto”, come noto, è un picco prominente di inviluppo spettrale intorno ai 3000 Hz presente in voci liriche maschili e di contralto, che rende la voce più udibile in presenza di un forte accompagnamento orchestrale, spiegato come fenomeno di risonanza dovuto all’assemblaggio della terza, quarta e quinta formante.
Il canto lirico non è comunque l’unico detentore della formante di canto, rintracciata ad esempio anche nel canto classico cinese o nella prosa in voci dotate di buona proiezione.
Nei cantanti sani e dotati, la somma dell’intensità delle armoniche della regione della formante di canto rappresenta negli uomini il 25-30% (e il 15-25% nelle donne) dell’intensità globale del suono emesso. L’ampiezza di questa zona formantica cresce se cresce l’intensità di emissione e decresce con l’elevarsi della frequenza, rimanendo però sempre più pronunciata nelle voci maschili.
Il centro di frequenza della formante del cantante varia in base a diversi fattori:
… la classificazione della voce: il centro di frequenza della formante di canto varia con la classificazione vocale essendo più bassa per i bassi e più alta per i tenori.
… ma anche di psicoacustica ambientale: il centro di frequenza della formante durante l’emissione in presenza del suono orchestrale è molto più elevato rispetto a condizioni di studio (con valori tra 3000 e 3500 Hz) probabilmente per l’atteggiamento vagamente ipercinetico della prestazionalità del cantante quando è in palcoscenico. Essendo il valore formantico inversamente correlato alla lunghezza del “tubo” di risonanza si suppone che esso si riduca per la tendenza all’elevazione laringea. Questo può essere anche influenzato dal fatto che la prestazionalità del cantante in palcoscenico fa i conti con una particolare ricerca di brillantezza orchestrale, dove l’accordatura del LA supera a volte i canonici 440 Hz di riferimento, innalzandosi più frequentemente nel corso dell’opera (sono stati rilevati anche 450 Hz), contribuendo alla fatica del cantante nel mantenere la formante di canto.
La posizione della formante è quindi influenzata da fattori quali la lunghezza del tratto vocale di risonanza, le differenze individuali nella possibilità di cambiare la loro forma, fattori anatomici come la forma del palato duro ed infine il livello di preparazione del cantante.
E’invece il livello della terza formante che ci rivela se la voce del soggetto possiede una formante del cantante. Il livello di tale formante dipende dalla abilità del cantante, dall’intensità vocale e dal “modo” fonatorio, oltre che dalla vocale usata e dalla nota emessa. Ricerche di Sundberg evidenziano che tale livello è definibile come deviazione da un livello atteso di terza formante: data la frequenza delle due formanti più basse questo livello atteso può essere stimato dal diagramma.
In soggetti parlatori maschili il livello della terza formante è vicino o più basso di quello atteso, e così anche nella maggior parte dei soprani. E’ invece più intenso nei tenori, bassi e contralti e ancor più nei baritoni. Per i soprani spesso sono presenti due picchi, che suggeriscono la mancanza di assemblaggio tra F3 e F4, quindi la mancanza di una vera formante del cantante.
Recentemente, rispetto alla semplice presenza/assenza della formante di canto, è stato evidenziato un nuovo parametro di analisi spettrale per la valutazione quantitativa della voce cantata. Esso è definito come Rapporto di Potenza del Canto, o meglio direi di Portanza, ed è dato dalla differenza tra il picco armonico più alto tra 2000 e 4000 Hz (detto picco di portanza del canto) e il picco armonico più alto tra 0 e 2000Hz . Il “Singing Power Ratio”, espresso in decibel, ha significative relazioni sul giudizio di “proiezione della voce” e ricchezza armonica di un suono, per tutte le voci, anche se non hanno una definita formante di canto, quindi anche nel soprano o in alcuni generi vocali diversi dal canto lirico, in quanto tale indice non dipende dalla frequenza fondamentale ma dalla forma assunta dai risuonatori. Il valore del Singing Power Ratio risulta più alto nei cantanti allenati e può essere utilizzato come biofeedback visivo della qualità del suono emesso e come strategia di misurazione quantitativa della voce cantata. Ciò amplia la valutazione acustica-percettiva del cantante rispetto alla semplice presenza o meno della formante di canto, che risulta elemento costitutivo soltanto di alcuni generi musicali e per alcune categorie vocali.
La spettrografia, attraverso l’analisi della composizione armonica dello spettro vocale, ci consente di identificare alcune caratteristiche di gestione della sorgente glottica e delle cavità di risonanza anche in altre tipologie vocali artistiche.
Ad esempio, per quanto riguarda la voce “sporca” dei cantanti rock, è possibile rintracciare nello spettrogramma caratteristiche che sono anche dei pazienti disfonici, cioè di tipologie acustiche non propriamente fisiologiche, ma qui prodotte a scopo artistico con fini estetici-stilistici. Tra le principali ricordiamo: bande di rumore, diffusione armonica senza rinforzi formantici, e diplofonie, cioè presenza di armonici non multipli della fondamentale, che nel comune parlante sarebbero indicate come alterazioni patologiche e vengono invece a connotare le emissioni graffiate e pressate del rock.
Così pure la voce bitonale, caratteristica ad esempio in senso patologico delle voci dei ragazzi che non hanno completato la muta vocale, è caratterizzata dall’alternanza di frequenze fondamentali emesse in registri diversi, con repentini scivolamenti tra falsetto e voce piena, come, in diversa misura, nei cantanti “jodel” e in alcuni generi pop.
Componenti di bitonalità associate a rumore ad alta frequenza causato da soffio glottico in emissioni di falsetto caratterizzano ad esempio una particolare modalità di emissione, recentemente di moda in alcuni cantanti pop, come ad esempio Carmen Consoli.
Ancora si possono riscontrare nello spettro elementi di difonia, ma anche trifonia e tetrafonia, tipica del canto armonico o difonico della repubblica di Tuva e della Mongolia, caratterizzata dall’esaltazione di intensità di selezionati sovratoni armonici, grazie a particolari abilità selettive nelle cavità di risonanza, che fanno apparire all’ascolto due o anche più linee melodiche contemporanee ben distinte tra loro, una data dalla frequenza fondamentale (perciò dalla sorgente glottica) e l’altra o le altre date dai sovratoni stessi (perciò dagli atteggiamenti dei risuonatori).
Oltre alla spettrografia possiamo avvalerci dei dati forniti da una valutazione multiparametrica di alcuni indici acustici, il cosiddetto MDVP (che permette una “analisi multidimensionale dei parametri acustici della voce”, talora indicato come “vocaligramma”). In esso, degli undici parametri ritenuti significativi per una quantizzazione della regolarità del segnale vocale, sono stati particolarmente studiati i parametri di perturbazione della frequenza e dell’intensità del segnale (jitter e shimmer) e il rapporto armoniche/rumore.
Questi ultimi indici sembrano avere un corrispettivo psicoacustico nei protocolli di valutazione percettiva del segnale vocale, specificatamente nel riconoscimento del grado di raucedine e nelle componenti di perturbazione (modalità rauca, soffiata, velata).
E’ stato anche riscontrato in attività cantate che l’estensione del capo e la posizione della lingua influenzano non solo le risonanze e l’idea di “proiezione”, come noto in didattica, ma anche la stabilità della frequenza fondamentale e i valori di jitter e shimmer. Una volta di più la cura della postura e le sue implicazioni in alcuni modi di far canto si rivelano fattori importanti per la valutazione acustica del prodotto vocale e per la didattica dello stile.
Alcuni ricercatori si sono chiesti se l’allenamento al canto produce un effetto sulla voce parlata che possa far riconoscere differenzialità d’emissione tra cantante e non cantante. Molti cantanti vengono riconosciuti come tali già all’ascolto di brani parlati, eppure risulta che durante il parlato cantanti allenati e non cantanti mostrano manovre respiratorie, laringee e articolatorie simili. Quali parametri acustici fanno distinguere le voci parlate di quelli che sono riconosciuti come cantanti professionisti in confronto ai non cantanti (o ai cantanti che non vengono riconosciuti)?
Essi sono stati individuati nell’allungamento dei segmenti vocalici e nella più varia intonazione (cioè in una frequenza fondamentale media più variabile in termini prosodici).
I parametri che permettono di spiegare l’identificazione delle voci parlate dei cantanti lirici sono, oltre ai citati, la presenza del vibrato e la formante di canto e (ma ciò è risultato solo nelle voci maschili) i minori valori di perturbazione della frequenza fondamentale (jitter).
Il tipico timbro lirico che deriva dalla copertura del suono, cioè dalla formazione della “formante di canto”, altera il riconoscimento percettivo delle vocali rispetto al parlato, fatto inaccettabile per la vocalità leggera, che ricerca un suono più naturale e uno stile che permetta all’ascoltatore l’identificazione del messaggio verbale. In particolare è stato dimostrato che i cantanti di country-music e i cantautori concentrano l’energia spettrale intorno ai 450 Hz che è il picco principale di energia acustica anche dei loro accompagnamenti.
Mentre perciò il cantante classico mostra caratteristiche spettrali diverse tra voce parlata e cantata, il cantante country mostra più affinità tra le due prestazioni vocali, cioè esistono similarità tra il parlato e il cantato.
L’assenza di una formante di canto, nel genere country, può essere legata a varie ragioni:
- L’utilizzo di sistemi di amplificazione solitamente usati ad aiutare le voci dei cantanti non classici rispetto alla sonorità della musica,
- La mancanza di un apprendimento tecnico-vocale e delle basi necessarie a sviluppare i meccanismi richiesti per produrre la formante di canto;
- La distintività della “formante di canto” per il canto classico impostato, che farebbe invece perdere al cantante country le connotazioni acustiche confacenti al suo tipo di vocalità.
- La modificazione della qualità dei fonemi vocalici rispetto al parlato causata dalla produzione della “formante di canto”, accettata come attraente attributo solo dalla vocalità lirica ma deteriorante l’intellegibilità del testo a causa delle divergenze che determina tra parlato e cantato. Nei cantanti classici la similarità timbrica tra vocali attraverso il range di estensione è importante per non disturbare la linea melodica con cambi improvvisi di colore di voce. Nei country invece l’emissione cantata mostra similarità con il parlato; tale convergenza non è sorprendente se ricordiamo che, aspetto essenziale della vocalità country, è raccontare una storia e la comprensione del testo è dunque elemento preminente del genere.
- Peculiare di questo stile è invece, come nei buoni parlatori radiofonici e attori, un picco formantico tra i 3000-4000 Hz, assente nei disfonici o nelle voci amatoriali non professionali: tale picco sembra costituire un ingrediente spettrale tipico di buone voci parlate e ad esso è stato dato il nome di “formante del parlatore”. Tale picco sembra comunque rappresentare la regolare quarta formante, che, in uno spettro a lungo termine, appare come un chiaro picco ben distinto (se, durante il tempo fonatorio, si realizzano con costanza tre condizioni: la formante deve essere relativamente stabile in frequenza, la sua ampiezza di banda deve essere abbastanza stretta e la sorgente glottica deve produrre parziali armoniche alla sua frequenza).
In conclusione le caratteristiche spettrali dei country sono simili tra parlato e canto e non mostrano segni di formante di canto. E’ presente invece una quarta formante decisa e preminente, definita “formante del buon parlatore”.
Il “belter” è caratterizzato dall’uso del registro di petto (con quoziente di chiusura glottica stabilito superiore al 50%) oltre il punto in cui i cantanti nella tradizione lirica passerebbero ad un registro più leggero, con un quoziente di chiusura glottica sostanzialmente ridotto, cioè in registro medio o falsetto. Schutte e Miller descrivono la vocalità “belting” come un suono di forte intensità caratterizzato da una qualità vocale brillante, talvolta aspra/rauca/dura, che trasmette l’impressione di elevata tensione vocale e in cui assumono importanza fattori quali la realistica naturalezza dell’emissione e il grado di intelligibilità. Il cantante “belting” utilizza strategie di implementazione della risonanza che esaltano gli armonici più alti. Tali strategie provocano un aumento del quoziente di chiusura glottica sopra al 52% e rendono caratteristica la vocalità “belting” per accentuazione delle armoniche più acute attraverso una collocazione più alta delle prime due formanti, specialmente per le vocali più chiuse. Ciò significa anche che se vengono ottimizzate le strategie di implementazione che caratterizzano l’emissione belting, la sorgente glottica non ha bisogno di prodursi in ipercinesie eccessive per simulare le peculiarità di questo stile: esistono quindi modalità di realizzazione meno abusive di quanto si pensi. Abusiva ne è soprattutto l’imitazione senza tecnica adeguata. L’eufonia stilistica in molti casi è molto più vicina all’eufonia fisologica.
Caratteristica di una buona voce è tradizionalmente una buona estensione vocale con buona ampiezza dinamica di intensità tra i pianissimi e i fortissimi, misurabile e rappresentabile in quello che è definito il Profilo Vocale o Fonetogramma. Prove sperimentali hanno evidenziato che esistono differenze nei fonetogrammi tra voci maschili e femminili e tra voci incolte e allenate a riprova che l’esperienza del canto migliora il controllo neuromiogenico sull’uso della sorgente glottica. Nei cantanti allenati, vi è una relativa assenza di riduzione dinamica di ampiezza sulle frequenze corrispondenti al passaggio di registro, che si individua invece facilmente nel cantante alle prime armi.
E’ possibile una interpretazione dei contorni fonetografici in termini fisiologici. Dalle analisi spettrografiche sappiamo che la parziale spettrale più intensa, cioè le armoniche che hanno più volume, non è sempre la stessa tra un pianissimo e un fortissimo: nel piano è la fondamentale ad essere dotata di maggior livello di pressione sonora, mentre nel forte lo è spesso un sopratono armonico. Quanto incide il sopratono più forte sul livello di intensità totale di un suono dipende ovviamente dal suo livello di intensità rispetto a quello totale. Se non c’è differenza sostanziale tra la sua intensità e l’intensità totale, significa che è la stessa armonica ad essere responsabile del livello di intensità complessivo. Nei piani, essendovi bassa intensità delle altre armoniche, questa differenza è in genere piccola, indicando che il valore di intensità globale è dato principalmente dall’ampiezza della fondamentale che nei piani è l’armonica più forte. Il contorno fonetografico inferiore, i pianissimi, riflette dunque principalmente la fondamentale e l’efficienza dell’accordo pneumofonico inteso come accoppiamento tra pressione sottoglottica e tensione delle corde vocali. Nei forti, invece, la maggior differenza rilevabile tra l’intensità della armonica più forte e l’intensità globale del suono, indica che vi sono molte armoniche a contribuire al livello di intensità. Dunuqe il contorno fonetografico superiore, cioè l’emissione dei fortissimi, è pincipalmente legato ai sopratoni dello spettro e riflette l’efficienza della cavità di risonanza come selettore di armoniche e l’andamento del ciclo cordale in relazione all’andamento della fase di chiusura glottica (quindi in base ai registri).
Nel fonetogramma la formazione della “formante di canto” nell’emissione maschile dei forti non influisce apprezzabilmente sui livelli di pressione sonora totale, quindi non c’è un miglioramento dell’intensità globale nel fonetogramma legato allo sviluppo della formante di canto, ma eventualmente un avvicinamento dei valori di questa ai livelli dei fortissimi del cantante che ci segnala che i fortissimi vengono realizzati proprio grazie all’esaltazione delle frequenze armoniche definite come “formante di canto”, quello che il maestro di canto chiamerebbe la “voce impostata” e all’estero viene indicato come “ring” o “vocal focus”. Nelle donne invece l’ampliamento dell’apertura mandibolare crea una sovrapposizione tra fondamentale e prima formante che determina un guadagno di intensità fino a 30 dB. Per questo il fonetogramma nella voce femminile migliora come dinamica nel corso degli studi potendo fornire perciò elementi di valutazione dell’apprendimento del canto, mentre nell’uomo è importante osservare quanto il livello della formante di canto è vicino alla intensità globale dei fortissimi, in quanto tanto migliore sarà l’impostazione tanto più i due valori si avvicineranno.
Vi sono pochi studi empirici sugli effetti vocali (fisiologici ed acustici) di una performance prolungata e pochi riferimenti che permettano al cantante di valutare se l’alterata funzione vocale è normale effetto della performance o un cambiamento che segnala cattivo uso vocale e comparsa di disfunzionalità. Normalmente voce velata e stimbrata, opaca, povera di armonici dopo una lezione non è un segno positivo come a volte credono alcuni maestri, che collegano tale fonastenia alla necessità di irrobustimento delle corde vocali. Una voce che abbia correttamento sfruttato le potenzialità dei risuonatori rimane “alta” dopo il canto.
Alcuni studi hanno indicato che una prestazione vocale prolungata conduce a modifiche dei parametri acustici più per l’uso prolungato dei toni acuti che non per utilizzo di elevate intensità, segno dunque di affaticamento laringeo. Soggetti allenati risultano ovviamente meno suscettibili al danno vocale.
Uno studio ha mostrato che un gruppo di tenori di un coro mostrava deterioramento generale della voce dopo la prestazione, comprendente:
… riduzione dei range di frequenza (estensione) e intensità;
… peggioramento del rapporto armoniche/rumore sulle note medie e sulle note acute eseguite in piano. Questo perché la turbolenza del flusso aereo e l’irregolarità di vibrazione delle corde vocali dopo la prestazione si accentuano e il rapporto segnale/rumore peggiora;
… nei piani, aumento di jitter su note gravi, centrali e acute. Questo perché per un piano la durata del contatto glottico è ridotta e ciò determina un accresciuta irregolarità nel segnale glottico che aumenta le misure di perturbazione. Per note forti l’aumento della pressione sottoglottica e la compressione mediale aumenta invece la regolarità vibratoria delle corde vocali che di conseguenza fa ridurre le perturbazioni.
… Si assiste inoltre, a fine prestazione, ad un minor controllo della pressione sottoglottica, sorta di astenia dinamica del controllo respiratorio, che contribuisce alla comparsa della fatica vocale.
La valutazione con protocolli autopercettivi non corrispondeva ai dati oggettivi delle stesse prestazioni analizzate acusticamente, non si evidenziavano cioè rilievi sintomatici corrispondenti alle analisi acustiche: ciò significa che le scale percettive usate non risultano sufficientemente sensibili per le voci cantate a rilevare sottili modificazioni vocali, cioè hanno scarsa attendibilità.
La possibilità di riconoscere percettivamente alterazioni della propria produzione vocale specifica è essenziale, in quanto la percezione è il solo strumento che il cantante ha per giudicare il proprio strumento giornalmente: l’utilizzo di uno protocollo sensibile per una precoce rilevazione di cambiamenti soggettivi da affiancare ai rilievi acustici strumentali è dunque altrettanto importante.
La costruzione di protocolli di autovalutazione percettiva dovrebbe partire dalla coscienza e dal grado di percezione che le varie categorie vocali hanno del problema vocale, e dalla consapevolezza che un problema vocale è un problema quando limita la specifica funzione del fonante e non una realtà assoluta. Ricordiamo che il danno (l’impairment), nel caso della voce, è la perdita di funzione temporanea o permanente della laringe caratterizzato da alterazioni acustiche, percettive, fisiologiche, strutturali o psicologiche, e non necessariamente percepita dal soggetto come deviazione dalla norma. La riduzione risultante della capacità funzionale, a eseguire attività legate alla voce come il canto, è la disabilità, riduzione o mancanza di abilità nell’effettuare una attività entro il range considerato normale. L’handicap è lo svantaggio che deriva quando impairment o disabilità limitano o impediscono l’espletarsi di una carriera di performer vocale.
I cantanti riportano un alto grado di disabilità ed handicap rispetto ai non cantanti e differiscono rispetto alla percentuale di condizioni vocali diagnosticate ma non per i sintomi di diturbo vocale. Il 40 % di cantanti riferisce affezioni laringee o cordali rispetto a solo il 20% dei non cantanti. Ciò significa che:
o il cantante è più affetto da patologie
o è più abile nel percepire che qualcosa non va, sensibilizzato e reso cosciente dall’allenamento percettivo svolto, cioè vive il sintomo come una disabilità maggiore
o attribuisce un valore maggiore al sintomo, che determina per lui un handicap.
I cantanti comunque, quando percepiscono una alterazione vocale, effettuano, in maggior misura rispetto ai non cantanti, un consulto medico. Siccome entrambi percepiscono in realtà la stessa percentuale di sintomi vocali, i cantanti differiscono nella percezione del significato del disturbo, cioè nella disabilità.
Rispetto alle condizioni diagnosticate i cantanti percepiscono maggior senso di disabilità, cioè di percezione della condizione (del suo grado, durata e frequenza), rispetto ai non cantanti.
Lo stile di canto (opera, teatro musicale e canzone leggera melodica) non sembra invece avere influenza sulla percezione di disturbo come disabilità ed handicap, ad eccezione della vocalità pop-rock.
Il Voice Handicap Index è un test di valutazione percettiva che è stato creato per monitorare l’autopercezione della disabilità legata alla disfonia da parte del paziente che può così essere posta a confronto con le misurazioni oggettive stroboscopiche, acustiche e aereodinamiche.
Questo test mostra nei disfonici, indipendentemente che siano cantanti o meno, un punteggio maggiore sulle domande relative allo stato fisico, segno di generale riconoscimento dell’alterazione vocale, ma mentre i cantanti ottengono maggior punteggio sulle domande relative al livello emotivo, i non cantanti raggiungono punteggi più alti sulle domande inerenti gli aspetti funzionali. Ciò significa che il performer guarda il disturbo vocale come handicap mentre dal non cantante viene sottolineata la disabilità.
I risultati delle applicazioni del VHI nei cantanti sono tuttavia significativamente più bassi in relazione ai non cantanti: ciò non significa che il paziente non senta il problema vocale, ma che le domande del test sono scarsamente sensibili per lo specifico artistico, e che il cantante è attento a sintomi molto più sfumati e precoci. Il basso punteggio del VHI nel cantante ne fa dunque uno strumento ancora imperfetto di misurazione autopercettiva.
In conclusione, se la strumentazione tecnica oggi in nostro possesso ci consente di approfondire e indagare le risultanze di un prodotto vocale in termini fisiologici, funzionali e patologici dobbiamo sempre ricordare che esse devono essere sempre confrontate con il sintomo portato dal paziente, le sue esigenze fonatorie e il suo modo di far voce, e con l’orecchio del didatta.
Anche il foniatra deve ascoltare sempre quello che va a monitorare tenendo presenti le molte variabili: il canto è una espressione multifattoriale che risponde a coordinate spaziotemporali, ergonomicheambientali, fisiopatologiche generali, culturali-stilistiche, tecnico-specifiche, comportamentali, prattognosiche. Nessuna di queste è ignorabile nell’approccio valutativo strumentale e nel monitoraggio clinico di una voce. E ognuna di queste influenza i risultati dell’esame, la cui valutazione dovrà essere tassativamente compiuta dall’esecutore stesso, e non valutata a distanza, se non col rischio di errori madornali. Altrimenti ci si fidi, ancora più che di una analisi elettroacustica, dell’orecchio del proprio maestro.
Rodolfo Celletti mi scriveva provocatoriamente che ad insegnare il canto potrebbero bastare un foniatra e un musicologo. Finchè primo foniatra e primo musicologo di ogni allievo sarà il maestro di canto questo non sarà vero, e da quel maestro, se sarà guida consapevole anche verso quelle altre figure e interlocutore sensibile, scaturiranno cento onesti e coscienti esecutori e non l’occasionale superdotata, o forse solo fortunata, ma certo scarsamente consapevole, star di successo, che di foniatri e maestri non ha mai avuto bisogno.
L’arte, come scriveva Giuseppe Bellussi, che fu insieme a Carlo Meano e a Lucio Croatto uno dei padri italiani della foniatria della voce cantata, può comprendere la scienza, non viceversa.
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