di Franco Fussi
La corretta emissione della voce, anche cantata, prevede quello che i foniatri, ma anche i maestri di canto, definiscono il bilancio di risonanza, cioè l’equilibrato sfruttamento di quell’insieme di cavità che costituiscono la nostra “cassa di risonanza”, e che fungono da sorta di megafono per l’amplificazione dei suoni: cavità faringea, cavità orale e cavità nasale. Essendo queste, a differenza degli strumenti musicali, cavità modificabili in volume e conformazione grazie alla presenza di organi mobili (lingua, labbra, laringe, velo del palato), la voce umana si caratterizza per diversificabili rinforzi armonici, cioè ha la possibilità di mutare timbro, in termini musicali “colore”, dando luogo a quella multiformità di emissioni cui attribuiamo varie aggettivazioni in base a caratteristiche percettivamente riconoscibili. Al ruolo amplificatorio delle stesse cavità si riferiscono i maestri di canto quando utilizzano i termini di “punta” o focalizzazione del suono e di “cavità” o “corpo”, che, come vedremo, sono le due facce della medaglia dell’emissione vocale. E quando parliamo dei difetti di emissione legati al timbro, di suono ingolato, suono nasale, suono indietro, non ci riferiamo altro che alla gestione di queste cavità nella loro attività di rinforzo armonico.
La risonanza è dunque il processo attraverso il quale il prodotto primario della fonazione, cioè il suono generato dalla vibrazione delle corde vocali, oltre ad essere rinforzato in intensità, dà luogo, attraverso il passaggio nelle suddette cavità, a quello che è definito il timbro della voce. Le cavità di risonanza sono spazi confinati contenenti aria, la quale è in grado di risuonare, cioè di vibrare, se investita da un’onda sonora, quella appunto prodotta dalla vibrazione delle corde vocali, producendo un suono che è composto da una banda di frequenze (armoniche) le quali contengono alcuni picchi centrati sulle frequenze naturali di risonanza delle cavità attraversate. In altre parole, secondo la conformazione e l’atteggiamento assunto dalle cavità che momento per momento ricevono l’onda sonora, si avrà un rinforzo di alcune armoniche e non di altre. Vale la pena sottolineare che in realtà ciò che risuona, ciò che realmente costituisce il “risuonatore”, è l’aria contenuta nelle cavità, non le cavità in quanto tali.
Esse sono anche definite “il tubo aggiunto”, in relazione alla loro funzione di amplificazione del suono dopo ch’esso è stato generato alla sorgente (corde vocali), o ancora “cavità sopraglottiche”, essendo poste al di sopra della glottide (che non è un organo ma semplicemente lo spazio orizzontale delimitato dal bordo libero delle corde vocali: triangolare durante la respirazione quando le corde sono separate, abdotte, per consentire il transito dell’aria respiratoria in trachea; virtuale quando le corde sono in posizione adduttoria, cioè chiuse, in fonazione).
Il suono laringeo viene amplificato ed arricchito di armoniche ad opera dei risuonatori attraversati e giunge all’ambiente con caratteristiche acustiche strettamente dipendenti dall’atteggiamento funzionale adottato dalle cavità, oltre che dalla loro struttura anatomica. E’ importante allora precisare che i risuonatori sono posti tutti e solamente tra sorgente sonora e ambiente a comporre il citato “tubo aggiunto”: non è pensabile, per la stessa definizione di risuonatore, che una cavità che si trovi prima del punto di origine del suono fondamentale, della nota emessa, possa in qualche modo risuonare, in quanto tale cavità non potrebbe mai essere attraversata da un’onda sonora, e non avrebbe perciò nulla da poter amplificare. Dall’alveolo polmonare alle corde vocali la corrente espiratoria non è vibrante, cioè è muta, e le vie aeree (polmoni, bronchi, trachea, “petto”) non sono risuonatori. Ecco allora perché, anche se didatticamente significativo, è sbagliato parlare di risuonatori toracici: le sensazioni vibratorie che in alcuni ambiti tonali dell’emissione si localizzano e vengono avvertite dal cantante nel “petto” non sono dovute a fenomeni di risonanza ma a fenomeni vibratori muscolari e scheletrici relativi alla trasmissione del suono nei tessuti costituenti.
Il torace, il petto o altre parti del corpo non risuonano ma “consuonano”, in altre parole non amplificano il suono ma ne trasmettono solo le vibrazioni in qualità di corpi solidi. Quando parliamo di voce di petto dobbiamo allora riferirci solo a queste sensazioni, solitamente più percepibili nelle voci gravi, ma possibili comunque nella prima ottava delle voci acute. In ogni caso è errato considerare la caratteristica timbrica legata alla “voce di petto”, e le connesse sensazioni vibratorie nel torace, come un registro; da un punto di vista fisiologico i registri della voce, come vedremo in un altro numero, sono fenomeni di origine laringea e non hanno nulla a che fare con la risonanza. Il cantante fa comunque ricorso al controllo dell’atteggiamento funzionale degli organi cavi che fungono da risuonatori attraverso le sensazioni muscolari e vibratorie che essi ricevono. E’ anche per questo che si parla di “canto in maschera”, che è il riferimento vibratorio che il cantante riceve, dalla sua emissione vocale, nello scheletro facciale. Analogamente, il termine “voce di testa” deve essere accettato solo in riferimento alle sensazioni vibratorie soggettive che il cantante avverte nel cranio e nel massiccio facciale per “consonanza” vibratoria di tali strutture muscoloscheletriche, come avviene quando si affrontano i toni della seconda ottava e in particolare dopo il cosiddetto passaggio di registro ai toni acuti, almeno quando si usa la voce piena e non il falsetto.
Da individuo a individuo la conformazione dei risuonatori è ovviamente variabile, ed è spesso riscontro comune nel buon cantante lirico un viso piuttosto largo con ampia componente zigomatica, cosa che ha fatto credere importante l’interessamento dei seni mascellari alla risultanza acustica dell’emissione; in realtà i seni paranasali sono cavità virtuali che poco incidono con la risonanza in quanto l’aria contenuta in essi non viene investita da alcuna onda sonora, dato che il collegamento all’aria contenuta nelle fosse nasali avviene attraverso un canale che in condizioni normali risulta collassato. La faccia larga del cantante è invece un segnale di buona ampiezza generale delle cavità di risonanza, della cosiddetta “maschera”, che coincide con la superficie di riflessione e propagazione vibratoria muscoloscheletrica della voce in quelle cavità che se correttamente sfruttate fungono da megafono e da selettore appropriato di armoniche conferendo qualità al timbro e sonorità al suono emesso.
A differenza della cassa armonica degli strumenti a corda le cavità di risonanza nella voce umana hanno la caratteristica di poter variare in volume e conformazione grazie alla presenza di organi mobili quali la lingua, le labbra, il palato, ecc., permettendo una selezione delle frequenze armoniche da amplificare e dando luogo alle variabilità timbriche che mettono in grado il cantante di mutare i colori espressivi del proprio suono, specificare le vocali, ecc.
Nel canto lirico esistono diversi fenomeni legati alla gestione dell’emissione che dipendono strettamente dalle modalità di utilizzo dei risuonatori. Ne esaminiamo ora solo quello che la didattica sfrutta per il bilanciamento della qualità dell’emissione, e che io, lasciandomi prendere la mano dall’uso di metafore quanto un insegnante di canto, definisco la “costruzione dell’uovo”, che è in realtà l’apprendimento di un uso bilanciato delle proprie risonanze: il corretto equilibrio dei risuonatori prevede che nel suono esista un corpo, uno spessore, una ampiezza di cavità (la base dell’uovo) che fornisce pienezza e rotondità alla voce, e nel contempo una direzione, una proiezione, una punta che conferiscono brillantezza e focalità al suono (la punta dell’uovo). Se una delle due componenti manca o viene sacrificata, si fa la frittata.
I difetti nell’uso dei risuonatori non si limitano comunque al mancato sviluppo di una delle due componenti citate. Il timbro caratteristico del cantante ingolato, ad esempio, è in genere caratterizzato da un costante arretramento della base della lingua, un tipico difetto di chi cerca di rendere il proprio timbro più scuro di quel che non è, o di chi equivoca il timbro “lirico” con questo colore ingolato di voce (come facevano i ragazzi in discoteca quando era in hit-parade “Vincerò!”Š). O ancora, di chi per difetto di impostazione innesca processi di tensione della base linguale e della faringe, come a volte succede agli allievi di canto che fissano la posizione della lingua in condizioni di arretratezza, quasi a voler uniformare il colore della voce, e non fanno altro che ingolare e rendere anche meno intelligibile l’articolazione. Già, perché nel canto lirico le esigenze dell’articolazione e quelle dell’uniformità del timbro su tutta la gamma dell’estensione fanno un po’ a pugni tra loro. Le esigenze del canto nel XVI e XVII secolo, non avendo problemi particolari di estensione e udibilità, favorivano infatti molto di più la libertà di pronuncia e l’adeguatezza alla poetica del “recitar cantando”. Il bisogno di far più volume dell’opera romantica doveva invece potenziare lo sfruttamento del “megafono” per arricchire il suono nei suoi armonici, economizzando in spesa muscolare. Ciò però era possibile solo con la ricerca e il mantenimento di un adeguato spazio faringeo (quindi minori spostamenti linguali) a scapito dell’intelligibilità. A questo punto, le cavità di risonanza, dal loro primario scopo di organi di articolazione della parola, vennero sempre più assumendo questo secondo ruolo, che non sempre permetteva di conciliare la chiarezza della dizione con quella dell’uniformità e portanza del timbro.
E’ una regola di fonetica acustica: più lasciamo libertà alla lingua e alle labbra di pronunciare l’articolazione di vocali e consonanti come nel parlato, più permettiamo spostamenti dei picchi armonici con manifestarsi di differenti risultati timbrici, cioè minore uniformità di “colore” (vi sembrerà strano, ma anche la differenza tra le vocali è solo una differenza di timbro del suono); mentre tutte le volte che cerchiamo di mantenere costantemente ampio lo spazio faringeo e limitiamo gli spostamenti della lingua, rendiamo più omogeneo il colore della nostra voce, in quanto permettiamo minori spostamenti dei picchi, ma a scapito dell’intelligibilità fonemica. Ecco perché alcune delle grandi “vocaliste” che ricordiamo per purezza e omogeneità di emissione hanno a volte intelligibilità precarie (evidentissimo il caso di Joan Sutherland), mentre le grandi “dicitrici” (Maria Callas ad esempio) mostrano maggiori cambiamenti nel colore tra i vari ambiti tonali dell’estensione. Il segreto che le fa considerare, pur nella loro antiteticità, tra i massimi soprani dal dopoguerra ad oggi, è l’aver saputo sfruttare a scopo interpretativo due processi diversi: la voce, nel primo caso, quasi attraverso una poetica di astrazione estetica; il fraseggio e l’articolazione, nel secondo, piegando a scopo interpretativo le difformità timbriche, quasi un espressionismo estetico.
Nel suo percorso dalla laringe all’ambiente il flusso espiratorio incontra dunque cavità poste in serie o in parallelo (la cavità faringea, la cavità orale e le cavità nasali), il transito nelle quali è obbligato (per le prime due cavità) o facoltativo (per le fosse nasali): la possibilità di passaggio dell’aria nel rinofaringe è regolata dal velo palatino (palato molle) che abbassandosi verticalmente permette la continuità verso l’alto del flusso e innalzandosi ne sbarra il passaggio.
A volte nel cercare un grado maggiore di immascheramento il velo viene tenuto troppo basso generando sì maggiori sensazioni vibratorie delle componenti scheletriche della “maschera” ma ingenerando il deprecabile fenomeno della nasalizzazione. E’ vero che in foniatria viene spesso utilizzata come esercizio per decondizionare il comune urlatore, insegnante o casalinga che sia, da atteggiamenti fonatori ipercinetici (“di gola”,”di fibra” direbbero i maestri di canto”), ma nel canto è invece un inestetico espediente attraverso cui vengono risolte alcune imperizie tecniche o difficoltà strutturali nell’affronto del registro acuto, come nel caso di quei tenori che per tenere il suono “agganciato” alla maschera e non “spingere” di gola nasalizzano l’acuto, magari dal second’atto in poi. In termini molto coloriti ho sentito parlare con questo significato di cantanti che “ignagnerano”. Non ne furono esenti talvolta anche grandi nomi, come Giuseppe Di Stefano, specie negli ultimi anni di carriera.
Talvolta l’esperienza sui risuonatori nasali è sfruttata da alcuni maestri di canto come allenamento, in fase di vocalizzo, per capire come portare “avanti” i suoni, come far “lavorare” la maschera, cioè come potenziare correttamente le giuste armoniche e far sì che il suono sia timbricamente equilibrato ed esaltato in volume. Con questo significato, durante un colloquio, il soprano Paola Antonucci mi descriveva come punto fondamentale della didattica, oltre alla respirazione, “l’appoggio della voce, che dà al suono una forma, lo arricchisce di armonici, lo proietta e lo focalizza: quella che chiamiamo maschera”. Ed aggiungeva: “Essendo stata allieva del maestro Bruscantini sono una forte sostenitrice della ricerca del punto di focalizzazione, che si troverebbe tra “occhi e naso”, che crea il corretto immascheramento attraverso peculiari vocalizzi mirati, che non sono portati nel “naso” come la maggior parte delle persone pensa, ma volti alla ricerca di quella focalizzazione che ha portato a cantare con eccellenza artisti quali Alfredo Kraus e Bruscantini stesso”.
Quando però questa ricerca finisce con l’uniformare l’emissione verso una direzione eccessivamente alta delle sensazioni vibratorie, lavorando quindi in eccesso di nasalità, si rischia di connotare la pratica esecutiva di una qualità timbrica un po’ nasaleggiante, perché il cantante si abitua a ricercare queste posizioni costantemente alte come punto di riferimento per una corretta collocazione dell’emissione. Fabio Sartori, uno dei tenori emergenti degli ultimi anni, mi descrive così le sue sensazioni: “ La prima cosa importante è che la voce si deve emettere nella maniera più semplice possibile, naturale; non ci sono posizioni di suoni “di naso”. I maestri ci parlano di suoni di “maschera”, però penso che la risonanza corretta sia data sempre da un modo di cantare molto spontaneo, cercando di trovare una posizione alta”.
Portare il suono avanti, portare il suono nel palco, proiettare il suono, tenere alta la posizione, sono tutti termini che vengono spesso utilizzati dai maestri di canto per significare questo potenziamento ad opera dei risuonatori, atteggiati in maniera tale da selezionare i giusti sopratoni armonici e rendere il suono timbricamente equilibrato e così potenziato in intensità da essere percepito dal pubblico senza fatica: il suono che “corre”. Purtroppo i termini usati generano invece a volte, nell’allievo principiante, l’immagine di un suono che deve essere portato, condotto, lanciato, spinto, quindi la sensazione di dover far qualcosa di muscolare per mandarlo più lontano con la conseguenza di finire con lo “spingere”, cioè stringere di gola!
Aggiunge Sartori: “Io all’inizio ho affrontato un repertorio relativamente leggero, che pratico tutt’ora, per tenere la voce sempre molto “puntata”, leggera appunto. Ora, dopo aver saggiato le mie possibilità vocali, eseguo ruoli più “pieni”, ma sempre nel repertorio belcantista, perchè questo mi aiuta tecnicamente a non spostare la mia vocalità o la mia posizione di questi anni. Ho iniziato con una voce molto piccola, “puntata”, e dopo trenta titoli in repertorio la mia voce si è amplificata, irrobustita, e anche la mia capacità di risonanza è aumentata: questo penso che faccia parte della maturazione della voce”. Fabio Sartori ci svela in altre parole la seconda faccia della medaglia: il corpo della voce, che completa il ruolo svolto dai risuonatori, cioè quello di fornire alla voce un arricchimento timbrico equilibrato che prevede sia la “punta” che il “corpo”, cioè sia l’intensificazione delle armoniche che denotano le caratteristiche di posizione del suono, che di quelle che lo arricchiscono timbricamente, che sono quelle armoniche che “passano” l’orchestra e rendono il suono facilmente udibile, gli conferiscono spessore percettivo e rotondità. Ciò viene realizzato per controllo della posizione della laringe, che viene mantenuta abbassata, e ricerca di ampiezza faringea (quando il meccanismo è sfruttato per eccesso qualcuno parla di “affondo”). Lo stesso concetto viene espresso da Fiorenza Cedolins, tra i soprani più accattivanti e promettenti dell’ultima generazione: “La voce deve essere portata avanti il più possibile per sfruttare al massimo le risonanze, in modo da risparmiarsi, ma sempre con la voce appoggiata e forte quando è necessario. La filosofia è quella di avere la massima resa con il minimo sforzo”.
Bilancio di risonanza, cioè equilibrio tra maschera e cavità. E’ lo stesso percorso del rampante basso Ildebrando D’Arcangelo il quale, rispondendomi su quale aspetto della vocalità ritiene in sede didattica più importante, afferma: “Direi che è meglio partire con la “maschera”, in modo da capire quali sono i punti di risonanza, e poi affrontare la costruzione del concetto di “gola ampia”, come è in fondo stato il mio percorso. Avendo avuto prima un insegnante, Maria Vittoria Romano, che usava molto la “maschera” e poi il maestro Venturi che mi ha insegnato l’affondo e come realizzare l’ampiezza della”gola”, sono riuscito a trovare una via di mezzo tra maschera e cavità. Molti ragazzi non riescono a capire quest’apertura di gola e tendono ad equivocarla con l'”ingolatura” del suono, con amplificazione artefattaŠUso l’affondo più che altro all’inizio dello studio, esagerando delle posizioni che mi servono per trovare la cavità giusta e poi le ridimensiono. Ci sono differenze tecniche tra la preparazione e l’esecuzione, è come una palestra, ci si prepara ad un esercizio maggiore per poi affrontare il canto in maniera più semplice”.
Quale che sia il punto di partenza, lo sfruttamento equilibrato e completo dei propri risuonatori prevede entrambe i fattori: solo così potremo parlare di un corretto bilanciamento delle risonanze. Ovviamente, a seconda della categoria vocale, del repertorio e degli ambiti tonali in cui si canta, potranno esserci degli sbilanciamenti a favore dell’uno e dell’altro, ma la coesistenza dei due fattori dovrà essere sempre presente: la punta e il corpo. Inoltre, la sola ricerca del volume attraverso i risuonatori rischia di generare una emissione timbricamente univoca, dove si canta solo forte, e si finisce col produrre paradossalmente un canto spinto di “gola”, e non un canto sulle risonanze: tanto fiato, ma poche sfumature. A questo proposito ci ha detto William Matteuzzi:”Questa è l’eterna lotta tra la qualità e il nazionalpopolare. Purtroppo l’opera continua a mantenere una connotazione piuttosto nazionalpopolare e per molti centri di potere dell’ambiente musicale, a partire dalle agenzie e certi teatri, e anche una fetta di pubblico, invece di cercare di raffinare un certo tipo di cantanti, fa più gioco averne una grande “valanga” che più o meno arrivi in fondo all’opera, se però “fanno molto rumore”, perchè passano le orchestre; l’importante è che “tirino” la nota acuta, che fa sempre effetto, soprattutto nel repertorio verista. E purtroppo anche in quello verdiano, perchè se ascolti le quantità di Aide che vanno in scena in tutto il mondo e poi ti sforzi di guardare lo spartito, quasi mai riconosci quello che c’è scritto, molto spesso anche quando sono dirette da grandi direttori. Per quanto vi siano colori e colori, alla fine le orchestrazioni sono talmente pesanti che anche i cantanti di buona volontà, se hanno la possibilità di spingere e di passare l’orchestra, si rassegnano e lo fanno. Chi poi ha nostalgie dei primi del secolo e va a sentire un Radames tipo Martinelli, rimane a bocca aperta perchè si domanda come poteva, una voce che comunque sembra piuttosto sonora, avere questa facilità a filare i si bemolleŠUn certo tipo di strumenti molto sonori (sonori nel senso peggiore della parola), si trovano a loro agio in repertori dove fortunatamente l’orchestrazione copre anche le magagne, ma se vuoi mettere in crisi il classico cantante verista da massa, basta chiedergli di affrontare un paio di pagine di belcanto di quelle più legate, dove c’è scritto “messa di voce”, “sostenuto”, piano, forte, mezzo forte, e lì subito ti rendi conto che le cose non vanno. Perchè il passo dovrebbe dal belcanto al verismo e non dal verismo a niente o dal verismo al circo”.