di Antonio Juvarra
Un esordio teatrale, ad effetto, vagamente marxiano, per introdurre il discorso sul ruolo della respirazione nel canto potrebbe essere: “Finora gli scienziati hanno cercato di capire la realtà materiale, esterna, visibile della respirazione e del canto, si tratta adesso di penetrarne il retroscena invisibile.” In effetti anche la respirazione e il canto, come succede con gli aspetti più profondi e significativi della vita, manifestano la natura bidimensionale, a due facce, esteriore ed interiore, della realtà, facce che non sempre coincidono e che non sempre necessariamente devono coincidere, ma di cui è importante comunque capire i rapporti come pure le sfasature. Ma di questo aspetto, della faccia nascosta della respirazione e del canto, parlerò nella seconda parte di questa mia relazione, dopo essere sceso nel terreno comune agli scienziati e agli insegnanti di canto, quello della fisiologia, senza il quale questo confronto rischierebbe di rimanere un dialogo tra sordi.
Se si volesse individuare una linea di demarcazione netta tra l’orientamento moderno in materia di respirazione applicata al canto e l’orientamento antico, si scoprirebbe subito che questa linea corrisponde alla linea che divide orizzontalmente il corpo in due, ossia la didattica antica ha concentrato l’attenzione sulle componenti toraciche della respirazione, mentre la didattica moderna ha dato risalto alle componenti diaframmatico-addominali. Se la respirazione alta degli antichi rischiava di essere interpretata e realizzata come respirazione clavicolare, la respirazione diaframmatica moderna rischia di essere interpretata e realizzata come respirazione puramente addominale, il che rappresenta uno squilibrio nella coordinazione muscolare funzionale al canto non meno grave del primo. Insomma se i moderni hanno scoperto il diaframma, hanno anche inventato il tabù della respirazione alta, che è uno dei problemi più diffusi che riscontra oggi chi insegna il canto. In effetti è sintomatico il fatto che il concetto di ‘alto’, che ha sempre avuto un valore simbolico positivo, appunto di ‘elevatezza,’ ( basti pensare alla postura a ‘testa alta’ e allo stesso concetto tecnico-vocale di suono ‘alto’) , immediatamente evochi invece, se associato alla respirazione, connotazioni negative. Quando, come e perché è nata questa tendenza moderna a capovolgere la tradizionale simbologia spaziale e ad attribuire valore positivo a ciò che è basso, ‘affondato’ o addirittura ‘viscerale’ ?
Per quanto riguarda la respirazione è impossibile non rifarsi per l’ennesima volta a quello che ufficialmente rappresentò il passaggio dalla respirazione ‘antica’ a quella ‘moderna’ e cioè l’attacco sferrato nel 1853 dal foniatra ungherese Mandl contro le modalità respiratorie prescritte dalla bibbia vocale del tempo, il metodo del Conservatorio di Parigi, pubblicato nel 1804 per volere di Luigi Cherubini, che ne aveva affidato la stesura al tenore Bernardo Mengozzi. Il modello respiratorio di Mengozzi, rimasto per secoli ‘diabolus in voce’, tende oggigiorno ad essere rivalutato ed è perciò indispensabile una sua revisione critica. Nel suo metodo Mengozzi distingue una respirazione normale, non associata al canto, di tipo addominale e che non coinvolge il torace, da una respirazione cantata, in cui, cito testualmente, “nell’inspirare bisogna appianare il ventre, facendo sì che prontamente si deprima, gonfiando e protraendo il petto”, mentre “nell’espirare il ventre deve rimettersi lentissimamente nel suo stato naturale ed il petto abbassarsi a proporzione , affine di conservare ed economizzare pel maggior tempo possibile l’aria introdotta nei polmoni.”
Così formulata, la prescrizione di Mengozzi, che probabilmente sanzionava in forma scritta non le sue opinioni personali, ma l’orientamento della tradizione belcantistica si presta effettivamente a gravi equivoci. Particolarmente infelice e bisognosa d’interpretazione (attività, come si sa, necessaria in tutti i casi in cui si voglia salvare qualcosa o qualcuno….) è l’affermazione di Mengozzi secondo cui nell’inspirazione il ventre dovrebbe ‘prontamente’ risalire. Interpretata alla lettera, essa non può che condurre alla rigidità di ogni posa statica e prefabbricata, quale si è cristallizzata nella formula militaresca del ‘pancia in dentro, petto in fuori’. Non si può sorvolare su questa gaffe di Mengozzi e insisto su questo punto perché oggigiorno si sta affermando una tendenza didattica, testimoniata anche da un recentissimo libro sul canto edito da Ricordi, che vuole acriticamente rivalutare in toto, nel suo significato letterale, la ricetta respiratoria di Mengozzi, quasi facendone un contraltare rispetto alla tendenza diaframmatico-addominale che ha dominato la didattica vocale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
Il problema è che in tal modo, invece di integrare nella ‘grande respirazione’ del canto le componenti toraciche, giustamente messe in luce da Mengozzi, non si fa che isolarle in contrapposizione a quelle diaframmatico-addominali. Così, allo scopo di avvalorare una sorta di nuova rivoluzione copernicana nel canto, non si fa che rimanere schiavi di quello stesso modello pendolare di opposti che non si fondono, da cui sono nati gli eccessi addominali di Mandl.
Senonché, come sempre accade nel canto, non è questione di aut-aut, ma di et-et.
Se la storia dell’opera, come ha osservato acutamente Celletti, si può da un certo punto di vista definire come la storia delle infinite variazioni della figura retorica dell’iperbole, analogamente la tecnica vocale si può considerare come il progressivo approfondimento della figura retorica dell’ossimoro, ovvero il paradosso concentrato. In virtù di esso si scopre via via che il canto è movimento immobile, tensione distesa, altezza profonda, acuta rotondità, concentrazione spaziosa, brunitura lucente, parlare non parlato, svuotamento espanso, densa trasparenza, espirazione ispirata e così via ‘baroccheggiando’ all’infinito, gioco futile e stucchevole in sé, ma in perfetta sintonia filologica con l’epoca e la cultura da cui nacque l’opera….Una cultura appunto che nel gusto dell’ossimoro e in concetti come quello di ‘temperamento’ espresse la sua esigenza di stabilire una relazione armonica dove gli opposti potessero fondersi e non rimanere separati e contrapposti.
Oggigiorno, purtroppo, l’unico ossimoro fatto proprio dagli insegnanti di canto è quello, autopromozionale, della ‘modernità antichizzata’, ossia quel fenomeno per cui tutti quelli che ambiscono a presentarsi come inventori di una nuova, personale tecnica vocale, pretendono nello stesso tempo che questa venga considerata come la riscoperta dei metodi antichi: insomma un ossimoro all’italiana, che con una fava prende due piccioni, quello dell’originalità e quello dei quarti di nobiltà…….
Per quanto riguarda l’attuale tendenza a recuperare alla lettera la respirazione toracica di Mengozzi, essa si avvale anche di una sorta di slogan, che suona : “lasciate in pace la pancia, concentratevi solo sul torace”, dato che “i polmoni sono nel torace, non nella pancia.” Argomenti come questi sfruttano ovviamente la forza demagogica di quelle verità autoevidenti che spesso sono solo apparenze superficiali….. Con un analogo facile sillogismo potremmo dire: si cammina con le gambe, ergo non ha senso muovere le braccia camminando….ma chiunque abbia mai avuto gambe per camminare, sa che il movimento delle braccia che ‘accompagnano’ il movimento delle gambe camminando, quasi un loro eco motorio, è ciò che fa la differenza qualitativa tra i due modi di camminare, da puri bipedi o da ex-quadrumani quali siamo……
A mio avviso limitarsi a “concentrarsi sul torace” invece che sull’addome non risolve il problema, per altro giustamente lamentato, dell’attuale eccessivo meccanicismo della respirazione e questo per il seguente motivo. Anche auspicando un coinvolgimento di tutto il torace e non della sua sola parte alta, questo approccio rimane sempre iscritto in quella logica di un controllo localizzato, esterno, che è lo stesso da cui sono scaturiti gli eccessi, giustamente criticati, del metodo opposto, cioè esclusivamente diaframmatico-addominale. L’area del corpo su cui concentrarsi, l’intero torace, diventa sì più ampia rispetto a quella solo alto-toracica o puramente addominale, ma rimaniamo sempre nell’ambito di un controllo diretto periferico, ossia che non parte da un impulso centrale come invece succede con certi atti respiratori profondi e naturali.
Insomma, se l’obiettivo è quello di ispirarsi alla libertà e alla facilità dei movimenti naturali, occorre rendersi conto che non è il proposito di inspirare col torace invece che con la pancia a rendere i movimenti naturali, e che, comunque, anche questo rientra nell’ambito delle manovre tecniche, esattamente come succede con la respirazione addominale. Quindi non è il diverso settore del corpo interessato all’intervento tecnico a trasformarlo in naturale, ma lo spirito con cui lo si compie. Ora per uscire dai luoghi comuni che facilmente vengono indotti ogni volta che si contrappone un modello naturale, associato alla semplicità, a un modello tecnico, associato alla complicazione, occorre una volta per tutte definire di quale natura e di quale tecnica stiamo parlando. Gravi equivoci sorgono quando ad esempio si arriva a utilizzare l’antico precetto italiano ‘si canta come si parla’, per legittimare un’equazione parlato = cantato, in virtù della quale anche la respirazione applicata al canto dovrebbe essere la stessa del parlato o un suo sottoprodotto. In questo modo si dimentica che questa stessa tradizione a cui ci si vorrebbe ispirare, ha unanimemente enfatizzato il ruolo del respiro come e forse ancor più di quello del parlato, e a provarlo bastino le testimonianze, per il Settecento, di Mancini e, per l’Ottocento, di Lamperti e Delle Sedie. Sintetizzare quindi la natura del canto nella formula ‘speech level singing’, ossia canto a livello del discorso parlato, è dire una mezza verità che diventa una mezza falsità, non appena si dimentica l’altra faccia della medaglia, che è il fiato e la respirazione. Ovviamente parlare di uno ‘speech level singing’, invece che, come si dovrebbe eventualmente dire, di uno ‘speech and breath level’ è più semplice e per ciò stesso più accattivante.
E’ bene chiarire allora che il canto contiene sì la natura del parlato senza annullarla, ma non è riconducibile a questo, esattamente come una molecola d’acqua contiene sì due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, ma è qualcosa di essenzialmente diverso sia dall’idrogeno, sia dall’ossigeno in essa contenuti e in questo, come succede per il canto, consiste il suo miracolo. Se si teorizza che è l’idrogeno del parlato a produrre l’ossigeno della respirazione e quindi l’acqua vocale del canto, si rimarrà sempre a piano terra, cioè sul piano del ‘parlato intonato’ sotto forma o di declamato o di parlato buffo, senza che il parlato, privato dell’ala del respiro, possa mai spiccare il volo e trasfigurarsi in canto. A trasfigurare il parlato in canto è appunto, secondo tutta la tradizione italiana, il respiro, ma non il respiro superficiale del parlato, per quanto naturale esso sia, né un respiro per così dire tecnologico, anatomico, cioè meccanicistico, bensì il respiro naturale e profondo, dove la ‘profondità’ non è data né da una localizzazione spaziale in una data area del corpo né dalla quantità d’aria incamerata, ma dalla sua percezione come sensazione vitale fondamentale e come presa di coscienza, non intellettuale ma esistenziale, del proprio essere nel corpo. Se il canto, come sostengono certi semplificatori, dev’essere considerato in tutto e per tutto equiparabile al parlato, quindi anche per quanto riguarda la respirazione, non si capisce che cosa mai impedisca al parlato di diventare subito e magicamente canto, e che cosa trattenga noi ora qui a discutere per cercare di capire la sua natura profonda.
Non si capisce neppure con quale arbitrio i sedicenti moderni continuatori di una tradizione belcantistica italiana, la quale esplicitamente riconosceva nel rapporto ‘fiato/parlato’ le due ali senza le quali il canto non può volare (e basti citare le parole del Farinelli ottocentesco, Pacchierotti, che affermava che “chi sa ben respirare e ben sillabare, sa ben cantare”) accettino e pubblicizzino soltanto la seconda parte di questo binomio e disinvoltamente buttino nel cestino la prima, a causa dell’uso semplicistico che essi fanno del concetto di semplicità. Con lo stesso criterio saremmo autorizzati a fondare una didattica pianistica basata sull’uso di due dita, invece che di due mani, una ‘two finger level playing’, solo perché più semplice della tradizionale tecnica a dieci dita…….
Sbandierando acriticamente lo slogan della semplicità e della facilità, concepiti come assoluti, si dimentica insomma che l’approccio allo studio del canto dev’essere sì naturale, ma nel senso di partire dalla natura superficiale per arrivare alla natura profonda. La tecnica, la vera tecnica è semplicemente il mezzo per arrivare a questa profondità. Tutta la tradizione vocale è lì a testimoniare, con le sue strane espressioni come ‘appoggio’, ‘cantare sul fiato’, ‘colonna del fiato’, che il fenomeno della respirazione nel canto, pur rimanendo profondamente naturale, non ha niente a che fare con l’esperienza della respirazione utilizzata parlando. Illudersi che quest’ultima possa essere usata come modello definitivo di coordinazione muscolare per il canto è come illudersi che spingendo a trecento all’ora una macchina, questa possa ipso facto prendere il volo come un aeroplano….
Si può dire in sintesi che un’operazione di questo tipo, che sulla base di un equivoco concetto di naturalezza, proponga come modello la respirazione parlata o riproponga una respirazione toracica, entrambe semplificate delle componenti diaframmatico-addominali concepite come complicazione superflua, non può che portarci al punto di partenza, quello da cui è partita l’esigenza, nella metà dell’Ottocento, di mettere in luce anche la dimensione della profondità e non solo dell’altezza . Non dobbiamo allora dimenticare che se l’attuale rivoluzione respiratoria (o controrivoluzione che sia) si avvale, per esaltarne le componenti puramente toraciche, dell’autorità di trattatisti come Mengozzi, Lablache e Garcia, a sottolineare l’importanza delle componenti diaframmatico-addominali, che si vorrebbero mettere in secondo piano, c’era non solo l’outsider dr. Mandl, ma anche nomi autorevoli come quelli di Panofka e, soprattutto, di Lamperti.
Non è un caso che proprio Lamperti, messo in secondo piano in Italia rispetto a Garcia dalla nostra storica ed endemica esterofilia, sia invece considerato negli Stati Uniti come il fondatore della pedagogia vocale moderna e che sia proprio questo didatta ad aver elaborato il fondamentale concetto tecnico di ‘appoggio’ respiratorio. E’ mia convinzione che la premessa del fenomeno dell’appoggio, quale naturale assestamento del sistema verso il basso e tranquilla ‘posa della voce’ al momento dell’attacco del suono, sia dato da un certo sollevamento del torace al momento dell’inspirazione, ma senza che il torace sia bloccato in questa condizione ‘sospesa’ durante l’espirazione, come alcuni moderni interpreti di Mengozzi vorrebbero.
Una coordinazione muscolare di questo tipo, che affida esclusivamente ai muscoli del torace il compito di controllare l’espirazione, è completamente estranea al fenomeno dell’appoggio, che non si basa su un rallentamento volontario, diretto dell’espirazione, ma su una sinergia tra torace, diaframma, muscoli addominali e intercostali, che ha come risultato indiretto, automatico, quel rallentamento della risalita del diaframma in cui consiste l’appoggio.
E’ vero che il diaframma è stato spesso oggetto di vere e proprie idolatrie ed esaltazioni, che niente avevano a che fare col suo effettivo ruolo fisiologico. Da qui ad esautorarlo dalla dinamica respiratoria il passo è lungo. Ma c’è da chiedersi prima di tutto il perché del successo del diaframma, unico termine anatomico che ha goduto e gode di universale diffusione presso i cantanti. Il motivo di questo successo non è dato a mio avviso da un’improvvisa conversione dei cantanti alla visione scientifica del canto, ma dal fatto che la realtà anatomica di questo muscolo, quella di una membrana elastica che divide orizzontalmente torace e addome, corrisponde esattamente a una delle sensazioni fonatorie fondamentali, suscitate quando l’emissione è corretta, e cioè quella di un telone elastico, di un pallone o di un cuscino su cui l’espirazione cantata si ‘appoggia’ e che è la risposta naturale alle nostre esigenze di ‘fondamento’.
Pertanto l’unico modo in cui è possibile ‘salvare’ Mengozzi è quello di interpretarlo alla luce di un moderno pensiero olistico, globale, che non ragiona più per compartimenti stagni ed azioni meccaniche localizzate, per cui il vero significato delle sue parole è verosimilmente, il seguente. Mentre la respirazione normale, non associata al canto, è una respirazione parziale e si realizza di solito con movimenti che si rendono visibili essenzialmente nella zona epigastrica (movimenti che nella fase espiratoria sono esclusivamente passivi), la ‘grande respirazione’ del canto esige un coinvolgimento del torace tale da garantire quelli che nella scuola di canto italiana storica sono sempre stati considerati i presupposti tecnici di questo particolare tipo di emissione: la postura eretta, nobile, da una parte, e, dall’altra, l’apertura e la “forza naturale del petto”, come significativamente la definiva il castrato Mancini, intendendo con questa non una tensione dei muscoli pettorali, ma il coinvolgimento del torace nel sistema funzionale dell’appoggio.
Se la respirazione è solo addominale e il torace non viene coinvolto, si crea uno squilibrio in basso, che impedisce l’instaurarsi di quelle sinergie muscolari su cui si basa l’emissione libera; in altre parole, antagonismi muscolari non necessari o esagerati (tra i quali possiamo includere il cosiddetto ‘affondo’) o movimenti muscolari di segno opposto, essenzialmente compensativi (tra i quali possiamo includere il ‘sostegno’), verranno inseriti nell’ ‘appoggio’, rendendolo, rispettivamente, o rigido e muscolare, o inefficace.
Il primo caso, squilibrio in basso, si ha con certe tecniche di emissione, di derivazione nordica, trasmesse da insegnanti che magari si spacciano per continuatori dell’antica tradizione italiana.
Un esempio è rappresentato dalla tecnica dell’affondo, diffusa da Del Monaco e introdotta in Italia negli anni Trenta dal suo maestro Melocchi, che a sua volta, secondo Anthonisen, l’aveva appresa da un insegnante russo.
Il secondo caso, squilibrio in alto, si ha con quelle tecniche che interpretano erroneamente la postura eretta e l’elevazione del petto, prescritta dagli antichi, come effetto di una spinta consapevole in dentro dei muscoli addominali. Un esempio è rappresentato dall’interpretazione che del sostegno dà Celletti, ‘sostegno’ realizzato scorrettamente come rientro volontario e immediato dell’addome, da effettuare addirittura prima dell’inizio della fonazione !
Partendo da una respirazione sbilanciata in basso si hanno insomma esiti opposti ma ugualmente scorretti a seconda che il movimento naturale discendente dell’appoggio venga, come nel primo caso, esasperato (e avremo quella forma degenerativa dell’appoggio che è l’affondo) o, come nel secondo caso, annullato (e avremo quella forma di falso appoggio, che è il sostegno). Per evitare questi opposti estremismi è opportuno ricordare che il suono galleggia senza affondare, e, che, per quanto riguarda lo squilibrio di segno opposto, cioè il suono ‘per aria’, invece che affondato, è bene tener presente che il suono, pur volando o galleggiando (a seconda delle metafore scelte), non dev’essere del tutto privo di quel peso che fa sì che esso si appoggi su qualcosa e non resti sospeso nel vuoto, che è l’elemento che, in definitiva, conferisce sostanza e apparenza reali alle cose ……..
Paragonando queste due situazioni opposte di squilibrio al normalissimo atto del sedersi, l’equivalente sarebbe dato, rispettivamente, dallo schiacciare attivamente la sedia (affondo) o dal rimanere sollevati (sostegno), invece di adagiarvi naturalmente il peso del corpo.
La prescrizione di Mengozzi di “appianare il ventre” nell’inspirazione non va dunque interpretata , come erroneamente fa Celletti, come azione muscolare volontaria diretta dei muscoli addominali allo scopo di far rientrare l’addome (che è la negazione di un canto che nella sua realtà espiratoria, confermata anche dalla ricerca scientifica, consiste in un ritardo nella risalita del diaframma), ma si riferisce al risultato indiretto che si ottiene quando la respirazione è attuata rispettando quelle leggi della coordinazione muscolare naturale, su cui si basa la vocalità italiana storica, e cioè appunto la postura eretta e la partecipazione armoniosa di tutto il corpo (non solo della zona addominale o di quella costale inferiore) alla respirazione. Analogamente l’idea secondo cui nell’espirazione cantata, secondo Mengozzi e la scuola antica, il ventre deve rimettersi nel suo stato naturale e il petto abbassarsi non va interpretata come blocco diaframmatico, torchio addominale o manovra grottescamente defecatoria (che farebbero precipitare il canto da quel piedistallo ideale in cui la postura nobile lo pone), ma come effetto di quel movimento naturale che fa sì che l’onda del respiro, dopo essersi innalzata dal centro del corpo con l’inspirazione, si riabbassa. poi in fase espiratoria.
Da qui è nata l’idea dell’appoggio, naturale emanazione ed espressione di quel ‘passo del respiro’, da cui è nato anche il ‘levare’ e il ‘battere’ dei movimenti musicali. Più precisamente, il levare dell’inspirazione è il tempo debole che corrisponde alla preparazione dell’attacco del suono, mentre il battere è il tempo forte dell’attacco/appoggio del suono. Questo conferma che anche se nell’inspirazione il diaframma si abbassa, la percezione globale dell’atto respiratorio registra anche l’esperienza del sollevamento della cassa toracica (parte superiore compresa), dato che, come succede versando un liquido in una bottiglia, questo riempie prima il fondo per poi salire. Viceversa, l’inizio della fase espiratoria, che coincide con l’attacco del suono, benché si manifesti fisiologicamente come fiato che sale per uscire, viene anche percepito dal cantante nella sua realtà di ‘appoggio’, ‘battere’, ‘posare la voce’, dato che su questo cuscino d’aria la voce, appunto, si appoggia.
Insomma il recupero dell’essenza profonda di questa respirazione, che rappresenta la condicio sine qua non dell’omogeneità e della bellezza dei suoni cantati, comporta un perfetto riequilibrio del corpo, che sfocia in quella corrispondenza e interdipendenza tra naturalezza e bellezza, tipica dell’arte classica, e che appunto fa sì che la “postura nobile” del cantante, in quanto espressione della coordinazione muscolare naturale, sia la stessa delle statue e delle raffigurazioni pittoriche classiche. Tutto questo non emerge nella respirazione ‘normale’, quotidiana, non associata al canto, che è superficiale e per lo più affidata agli automatismi inconsci.
Questo non significa, ripeto, che il rapporto tra le due respirazioni (quella normale e quella cantata) sia il rapporto di opposizione esistente tra naturale e artificiale, ma quello di integrazione esistente tra il meno e il più, tra natura superficiale e natura profonda. Quest’ultima emerge anche in certi atti ‘globali’, alcuni dei quali istintivi, come la ‘boccata d’ossigeno’ rigeneratrice, il ‘sospiro di sollievo’, l’annusare un aroma piacevole e l’inizio dello sbadiglio. Proviamo a sbadigliare inspirando solo con l’addome e bloccando la parte superiore del torace, e bloccheremo anche lo sbadiglio e il suo benefico senso di distensione. Non solo: una respirazione solo bassa e non globale, non ‘diffusa’ ha come effetto anche quello di rendere evidenti il prolasso addominale e il collasso del torace. Cioè si fa notare negativamente, esattamente come lo ‘zoppicare’, analoga limitazione di un movimento naturale, attira molto di più l’attenzione, in quanto atto disarmonico, del normale camminare.
In questo senso va spiegata l’apparente contraddizione per cui la respirazione delle antiche scuole di canto, pur coinvolgendo anche la parte alta del torace, godeva a suo tempo dell’attributo mitico dell’invisibilità, ed è interessante mettere in risalto come anche in tempi più recenti una cantante come Luisa Tetrazzini, la quale affermava che anche alla sua respirazione veniva riconosciuto dal pubblico la prerogativa di sembrare invisibile, attribuisse esplicitamente la causa di questo fenomeno proprio al fatto di espandere in fase inspiratoria la parte alta del torace. Questa apparente invisibilità si spiega quindi non come limitazione dei movimenti respiratori, bensì in termini di perfetta armonia e scioltezza con cui si manifestano tutti i movimenti corporei profondamente naturali. Si trattava quindi di una invisibilità relativa, resa possibile da una respirazione ‘diffusa’ e non limitata a una zona, o, più precisamente, di assenza di quella visibilità sgradevole con cui si manifestano molti tipi scorretti di respirazione, che comportano di per sé, in quanto settoriali, movimenti innaturalmente vistosi di compensazione. Non si trattava insomma di una invisibilità in senso assoluto, la quale rappresenterebbe una limitazione perché priverebbe il cantante di quella prerogativa che da secoli è imitata da tutti gli strumenti, compresi quelli, come il pianoforte, che ne sono costitutivamente privi, e mi riferisco al senso esistenziale e umanamente espressivo del respiro.
Insomma la verità, tanto semplice quanto profonda, enunciata da Mengozzi è questa: se respiriamo solo con la pancia, come naturalmente facciamo, rimaniamo ‘prosaici’, uomini con la schiena curva e la pancetta; se invece vogliamo innalzarci a quella dimensione di cui il canto e il teatro sono un riflesso, allora dobbiamo ‘accordare’ il corpo a questo scopo, recuperando il senso vero, profondo (che non è quello meccanico) della postura eretta, della respirazione e del loro rapporto, che solo possono restituirci la pienezza del nostro essere umani oltre che cantanti. E’ bene precisare che non si tratta di una questione puramente visiva, dato che a questa ‘postura nobile’, intesa non come autoimposizione esterna e punto di partenza dell’inspirazione, ma come dinamico punto di arrivo dell’espirazione cantata, corrisponde esattamente, come altra faccia della stessa medaglia, ciò che a noi come musicisti più interessa: la nobiltà del suono, di cui la nobiltà della postura è la manifestazione visiva. Se è vero infatti che anche per le discipline orientali la fonte della forza pura è nella zona del basso ventre, è anche vero che ciò che distingue il canto dal grido non è la quantità di energia sonora erogata, ma la sua qualità. Ora, il ‘trasformatore’, potremmo dire il ‘sublimatore’ del suono spinto o gridato in canto è rappresentato, ovviamente non solo, ma certamente anche dalla postura nobile, ‘allineata’, e dalla respirazione naturale globale, non settoriale e quindi né solo addominale né solo toracica. D’altra parte anche il buon senso empirico è lì a dimostrarci l’assurdità e l’innaturalezza di ogni respirazione settoriale: se gonfiamo un pallone, la forza di espansione, pur partendo dal centro, fa dilatare non solo l’emisfero inferiore, ma anche quello superiore , ricorrendo a una diversa sezione, non solo quello frontale, ma anche quello dorsale, e se questo non succede, concludiamo che il pallone ha qualcosa che non funziona….
Al giorno d’oggi la concezione di una respirazione genericamente o esclusivamente addominale è stata corretta inserendo anche parte del torace, le costole inferiori, nella dinamica respiratoria.
Abbiamo così la respirazione ‘costo-diaframmatica’, che per altro rischia di essere ugualmente concettualmente sbagliata, perché implica sempre una respirazione settoriale, a zone, quella costale inferiore (con rigorosa esclusione della parte superiore del torace), invece che una respirazione globale, che nasce sì dal centro ma, come appunto un pallone, si espande poi anche in alto.
Gli effetti deleteri di questo tabù, sotto forma di rigidità e mancanza di libertà, si fanno sentire ancora oggi in moltissime scuole di canto, dove si è molto zelanti nel bloccare questa parte importante dello strumento vocale. A questo proposito occorre osservare che ogni invito a NON alzare le spalle nell’inspirazione, così come succede con gli inviti a NON alzare laringe cantando, è sbagliato per il semplice fatto di presentarsi come prescrizione negativa, che inibisce attivamente e direttamente un movimento, invece che escluderlo in partenza dall’orizzonte percettivo del cantante. Se ci preoccupiamo, infatti, di NON alzare la laringe o di NON alzare le spalle, rimaniamo sul piano di una coscienza e di un controllo del corpo che è locale e periferico, non centrale.
Entriamo, invece, nel centro del fenomeno, se cogliamo l’atto nella sua globalità come sensazione. In questo caso il senso vitale del respiro profondo (inteso non in senso letterale, meccanicistico) è ciò che crea i veri spazi di risonanza del canto ( del canto inteso come risonanza libera e fenomeno naturale) ottenendo come risultato indiretto, non ricercato di per sé, anche l’abbassamento rilassato della laringe. Si tratta quindi di entrare e creare una nuova Gestalt, non di rimanere sul piano dei controlli localizzati o su quello, ancora più basso, dei controlli localizzati espressi e realizzati in forma negativa….
Insomma, se mi preoccupo di non alzare la laringe, continuerò a sentirla. Lo stesso, se mi premuro di abbassarla direttamente. Invece, se uso come mezzo indiretto la respirazione per rilassarmi, distendere e aprire gli spazi interni, otterrò come risultato naturale indiretto (quindi non voluto meccanicisticamente) non solo l’abbassamento rilassato della laringe ma anche la sua ‘sparizione’ dall’orizzonte percettivo, che è ciò a cui mirava la didattica degli antichi maestri del belcanto, quando invitavano a “non avere gola cantando”, o parlavano di “gola morta”.
Insomma, esiste una differenza tra un movimento o coordinazione muscolare, nati da una certa idea e attitudine psicologica, e lo stesso movimento o coordinazione muscolare, nati da una diversa idea e attitudine psicologica. La differenza non è probabilmente rilevabile esternamente, neppure con la strumentazione scientifica, ma è chiaramente avvertibile nel risultato sonoro. Questo fatto ci porta a sottolineare l’importanza obiettiva degli aspetti psicologici e direi addirittura semplicemente ‘ermeneutici’ del canto.
Questi aspetti psicologici intervengono come causa di effetti reali anche nell’ambito della respirazione. Si sa che non voler stare svegli o volere dormire sono entrambi ottimi sistemi per stare svegli. Nel nostro caso, non voler respirare alto o voler respirare basso sono ugualmente ottimi sistemi non dico per respirare alto, ma certamente per respirare male…..
E’ indispensabile quindi che il controllo razionale analitico delle manifestazioni esterne della giusta respirazione, le varie modificazioni corporee insomma, non venga scambiato per la causa prima della giusta respirazione. Esso è importante sì per evitare squilibri muscolari, ma con esso rimaniamo ancora all’esterno del fenomeno. Sperare di arrivare all’essenza vera della respirazione in questo modo è come sperare di mettere in moto un motore, riscaldandolo dall’esterno. La via per arrivare all’essenza intima, alla causa profonda, al centro della respirazione applicata al canto è quella che passa dalla presa di coscienza delle sensazioni vitali suscitate da certi atti profondamente naturali, che già abbiamo visto. Sono queste che ci consentono di passare dalla ‘lettera’ allo ‘spirito’, cioè dall’esterno all’interno del fenomeno della respirazione cantata.