10 maggio 2017

I registri della voce e il passaggio di registro


di Franco Fussi
La descrizione più comune del termine di registro è quella che identifica con tale termine un ambito di frequenze, cioè un gruppo contiguo di note, che possiedono uno stesso timbro vocale e in cui tutti i toni vengono percepiti come prodotti in modo simile. La definizione risale al Garcia, che scriveva nel suo trattato sul canto: “Colla parola registro noi intendiamo una serie di suoni consecutivi e omogenei che vanno dal grave all’acuto, prodotti dallo sviluppo di uno stesso principio meccanico, e la cui natura differenzia essenzialmente da un’altra serie di suoni ugualmente consecutivi ed omogenei prodotti da un altro principio meccanico. Tutti i suoni appartenenti allo stesso registro sono per conseguenza della stessa natura, qualunque sieno d’altronde le modificazioni di colore e di forza cui si assoggettano”.
E’ stato stabilito dalla moderna fisica acustica e dalla foniatria che i registri vocali sono in realtà eventi di tipo esclusivamente laringeo consistenti in una serie o ambito di frequenze consecutive prodotte con qualità fonatorie identiche, identificabili attraverso rilievi percettivi, acustici, fisiologici ed aerodinamici. Nella didattica della voce cantata, parimenti, quando si parla di registro si intende una serie di suoni contigui di uguale timbro, prodotta da una stesso meccanismo laringeo ed in rapporto equilibrato con particolari adattamenti delle cavità di risonanza. Questi adattamenti risonanziali hanno determinato il fiorire di terminologie varie e discordanti che fanno dei registri un argomento alquanto confusivo, sia per fattori di ordine storico-musicale, legati allo sviluppo della vocalità cantata, che per l’estensione del termine a qualità timbriche che dipendono invece esclusivamente da atteggiamenti assunti dalle cavità di risonanza e che sono assimilate sotto il termine di registri di secondo ordine, come ad esempio gli aggettivi di “aperto” e “coperto” che si usano attribuire a precise qualità d’emissione di un suono.
Nel parlato, utilizzando cioè note gravi dell’estensione vocale fisiologica, si sperimenta notoriamente la consonanza vibratoria della gabbia toracica, quella che è gergalmente ­e impropriamente- detta “risonanza di petto”, la quale comprende, almeno per l’uomo, l’ambito tonale della voce di conversazione.
L’intensità di tale sensazione vibratoria diminuisce salendo la gamma tonale fino ad un punto in cui, nel comune parlante o nel cantante ai primi studi, l’ascesa tonale si accompagna ad un radicale mutamento di qualità dei suoni, con timbro più chiaro e lieve innalzamento della laringe. Questo evento corrisponde a ciò che alcuni maestri chiamano il primo passaggio.
La qualità vocale di questo secondo gruppo di suoni, che può corrispondere nel comune parlante al range della voce di chiamata o gridata, interessa un intervallo di quarta o di quinta, oltre al quale la fonazione viene realizzata con sforzo muscolare notevole, con possibilità di rottura del suono, un fenomeno analogo al cantante che prende una “stecca” su toni della seconda ottava della sua estensione. Questo secondo limite è ciò che viene definito secondo passaggio.
Rappresentando quest’ultimo il mutamento fisiologico più radicale dell’impostazione nel canto, almeno per le voci maschili e sopranili, il termine “passaggio” è solitamente usato ad indicare il secondo passaggio.
Quello che fa in realtà il cantante lirico è cercare di equilibrare le necessità di allungamento delle corde vocali nel salire ai toni acuti con il controllo dell’azione del muscolo vocale, il quale permette un buon contatto glottico e mantiene in vibrazione tutto il corpo cordale, e con il controllo della posizione laringea, che tenderebbe a salire durante l’ascesa agli acuti. Ciò permette, da un punto di vista acustico, il mantenimento della concentrazione dell’energia acustica nella zona di armoniche definita come “formante del cantante”, situata intorno ai 2500-3000 Hz, che dona all’emissione cantata quella caratteristica timbrica che riconosciamo facilmente nel canto lirico impostato, in altri contesti definita come “voce piena” o anche “registro pieno”. Nel caso del proseguimento in acuto senza questi adattamenti si sconfina in una vocalità tesa e gridata, tipica degli urlatori, e quindi più (ma non solo) caratteristica della vocalità leggera (nel senso di non classica, non lirica), in cui sono presenti paradossalmente anche più armoniche rispetto al canto lirico, ma con intensità ridotte e senza rinforzo nella zona definita come “formante del cantante”: l’impressione è quella del canto forzato, dove più che l’intensità della voce colpisce il senso di sforzo e una qualità vocale pressata e tesa. In questo senso si dice che il cantante non “passa” di registro, cioè non fa quelle modifiche necessarie al suo apparato per proseguire sugli acuti in maniera “lirica”, cioè sviluppando la citata ”formante”. Il più evidente “cambio” di registro consiste ovviamente nel passaggio, salendo agli acuti, all’emissione in falsetto, ma questa modalità non caratterizza il canto classico, se non occasionalmente a scopo caricaturale o nei pianissimi di alcuni tenori leggeri, ma alcuni generi vocali moderni o folclorici come il jazz, il pop, lo jodel. La transizione tra suono “pieno” e falsetto è comunque occasionalmente, anche se non infrequentemente, utilizzata nel canto lirico, ad esempio a scopo caricaturale (categorie vocali maschili che simulano la corda femminile: un esempio, don Bartolo a Rosina: “per disegnare un fiore sul tamburo”) o in smorzature dell’emissione verso i “pianissimo” su toni generalmente acuti da parte di tenori, non solo leggeri o lirico-leggeri. Non stupisce infatti ascoltare questa capacità di transizione insensibile da un suono pieno al falsetto in Alfredo Kraus nei “Pescatori di perle”, ma lascia piacevolmente sorpresi in un tenore lirico-pieno o spinto come Franco Bonisolli nell’aria “Ogni pena più spetata” da “Lo frate innamorato” di Pergolesi.
Nella didattica del canto lirico ritroviamo concezioni pedagogiche che vanno dalla negazione dell’esistenza dei registri, proclamando l’uniformità vocale dell’estensione cantata (che è in effetti il fine dell’impostazione) a teorie di due registri (modale e di falsetto, o pesante e leggero), che puntano l’attenzione sulle differenze di composizione spettrale legate al tempo di contatto cordale, cioè sui veri registri primari, fino alla frammentazione in sei o sette registri lungo l’estensione vocale (dal registro detto “vocal fry”, usato per le note più gravi dell’estensione parlata, ai registri di flauto e di fischio, sfruttati da alcune voci di coloratura nei sovracuti).
Scriveva, nel 1898, H.H. Curtis nel suo ”Voice building and tone placing”: “Il Garcia scrivendo nel 1861 divide la voce in tre registri, petto, falsetto e testa, tutti e tre comuni ad ambedue i sessi con la differenza che la donna si estende più nelle note di testa e l’uomo in quelle di petto. Egli divide inoltre il registro di petto in superiore ed inferiore e così fa del registro di testa, creando così cinque distinti meccanismi. M.me Seiler segue il Garcia in questa divisione dei registri ed Emil Behnke divide la voce in un registro grosso (petto), in uno sottile (falsetto) e in uno piccolo (testa). I primi due li divide poi in superiori ed inferiori, accordandosi in questo col Lennox Browne nell’opera scritta in collaborazione. Il dr.Wesley Mills sembra accordarsi nelle divisioni del Garcia e della Seiler; ma in una lettera privata a Sir M.Mackenzie dice che non ha nessun desiderio di esser designato come un pugnace propugnatore di alcuna delle divisioni dei registri adottate finora. Il Mandl è partigiano dellla divisioni in due soli registri ed applica il termine inferiore a quello di petto e superiore all’altro di testa. Il Bataille il Koch il Vacher il Gonguenheim e Lermoyez e il Martels si dichiarano anch’essi per due registri”.
Il caos nella terminologia sui registri riflette una mancanza di conoscenze obiettive, che permette di dare enfasi più alla scelta terminologica che non a ciò cui essa corrisponde in riferimento al funzionamento delle corde vocali.
E’ tuttavia in genere riconosciuto dalla trattatistica che, nel cantante, la mancanza di una tecnica adeguata rende evidenti i registri ed il passaggio da uno all’altro. Una delle finalità classiche della pedagogia della voce cantata è quella di ridurre o eliminare le variazioni timbriche tra i registri, ottimizzando il passaggio da un registro all’altro con il minor cambiamento timbrico possibile.
Sicuramente ciò viene ricercato nelle vocalità lirico “pure” e più adatte al canto legato o spianato, o in genere di concezione belcantista. Tra alcuni esempi eccellenti ­i primi che vengono alla mente- Mirella Freni, Mariella Devia, Teresa Berganza, Roberto Alagna, Jussi Bjoerling, Renato Bruson, ecc.
Ma esiste anche un’altra estetica in cui la diversità timbrica tra vari comparti tonali dell’estensione viene sfruttata a scopo interpretativo in vocalità più “aggressive”, adatte al canto di sbalzo, e in genere di concezione più drammatica, o in altro modo virtuosistica. Tra i tanti esempi possibili: Rockwell Blake, Marilyn Horne, Maria Callas, Lucia Valentini Terrani, Josè Cura, Francesca Patanè, ecc.
Nella didattica possono riscontrarsi due atteggiamenti pedagogici: uno che sviluppa la voce a settori, evidenziando così la differenze di colore vocale; il secondo che, svicolandosi dal concetto di registro, si volge ad educare l’intera estensione puntando sull’eguaglianza ed uniformità timbrica. La finalità cui entrambe le posizioni tendono è in fin dei conti la stessa, benché approcciata con ottiche diverse, e tenta di realizzare un punto di convergenza nel passaggio tra le modalità fisiologiche d’azione muscolare laringea (registri), cercando di equilibrarne gli effetti timbrici.
Quando ciò avviene è difficile stabilire percettivamente le differenze ed attribuirle al loro corrispettivo laringeo: questa realizzazione, propria del cantante allenato, giustifica l’idea dell’unico registro come finalità percettiva di un lavoro didattico pur nella consapevolezza che esistono modalità laringee differenti lungo l’estensione.
Mi raccontava Nicolaj Ghiaurov: “Dato che il mio pomo d’Adamo saliva moltissimo quando cantavo, il mio maestro mi ha tenuto per lungo tempo nell’ambito tonale dal la al do centrali, ogni tanto toccando il do diesis, e mi convinceva che: “questo è il pane con cui devi vivere; di tutto il resto, da li’ in su, o anche in giù, non devi approfittare molto e non ti devi troppo esercitare. Quelle sono le paste, il dessert, ma il pane vero è nel centro della voce. Per lui c’era una parola che non piace a molti maestri: per lui era legge il “passaggio” della voce, che consiste nel dare quell’effetto per il quale non c’è nessuna differenza fra il centro e l’acuto. Spesso i maestri dicono: “tu canta, apri la bocca e vai su”. Non è vero. Quando mi sono presentato a lui cantavo in voce aperta, e quando arrivavo al do diesis era già “difficilino” per me. Mi ha detto “sali ancora”, e sono arrivato ad un re che mi ha provocato un gran dolore in gola, ho cominciato a tossire e ho detto “non posso cantare” Questo passaggio è arrivare alla “rotondità” e alla “copertura”; è una nuova emissione che deve dare assolutamente un risultato di naturalezza, come se quelle note fossero ancora nel centro. Per questa ragione mi ha tenuto un anno sulla “a”, dal la al do, e mi ha proibito di cantare a casa. I miei colleghi, che erano Gigli, Ruffo, cantavano le arie dappertutto, mentre io il primo esame che ho fatto nel primo anno era un Concone che si muoveva da la a do”.
Come abbiamo detto, l’azione muscolare del meccanismo laringeo diviene, salendo la gamma tonale, sempre più intensa (parlando di registri laringei essa viene anche detta, nella letteratura scientifica anglosassone, meccanismo “pesante” o “heavy mechanism”), fino ad un punto in cui o avviene un “break” vocale, per ipercinesia fonatoria, o si prosegue nel cosiddetto falsetto, a meno che, come avviene nel canto lirico, il rimaneggiamento della conformazione delle cavità di risonanza e un equilibrio tra le necessità di azione continuata del muscolo vocale e di allungamento della corda, evitino che il tempo di contatto delle corde vocali durante il ciclo vibratorio aumenti sempre più (cosa che caratterizzerebbe una emissione gridata e spinta), o che l’allungamento cordale stesso sia ad un certo punto compiuto per abbandono dell’azione del muscolo vocale, prevalenza del muscolo cricotiroideo e innalzamento della laringe (cosa che caratterizza il falsetto, dove la corda è allungata e rigida e vibra solo il bordo libero).
A questo punto dobbiamo specificare, semplificando, la funzione dei due muscoli tensori delle corde vocali, il muscolo vocale e il muscolo cricotiroideo. Il muscolo vocale, o tiroaritenoideo, è il muscolo che detiene la forza di accollamento delle corde vocali da un lato, e ne determina l’accorciamento dall’altro. Il primo fattore permette di realizzare una ampia vibrazione delle corde vocali con buon tempo di contatto e formazione di un segnale con ricca componente armonica, mentre l’accorciamento della corda permette la produzione di un basso numero di frequenze vibratorie al secondo cioè l’emissione dei toni gravi dell’estensione. Il muscolo cricotiroideo, esterno all’impalcatura cartilaginea, permette attraverso il basculamento in avanti e in basso della cartilagine tiroidea su quella cricoidea, l’allungamento interno delle corde vocali, gestendo così il settore tonale acuto, la capacità di salire verso le note acute. Questo è in genere accompagnato anche da innalzamento della laringe e conseguente irrigidimento del corpo cordale. La porzione vibrante della corda è in queste condizioni il solo bordo di contatto tra le corde stesse col risultato di produrre un suono acuto ma povero di armonici, un suono appunto in “falsetto”. Quando si stabilisce invece un equilibrio tra la necessità di non sollevare la laringe (perché non si riduca l’ampiezza delle cavità di risonanza), le esigenze di accollamento delle corde vocali (perché continuino a vibrare in tutta la loro “massa”) e quelle di allungamento per eseguire note acute, si sale in voce cosiddetta “piena”, tipica della voce “lirica”, si risolve cioè quel punto critico che è definito come passaggio mantenendo simile la qualità vocale tra i toni medi e quelli acuti dell’estensione.
Come abbiamo accennato, i due muscoli tensori delle corde vocali, il muscolo vocale e il muscolo cricotiroideo, governano le capacità di estensione di una voce, nell’ambito delle due classiche ottave con cui si è soliti individuare grossolanamente una categoria vocale, la quale ­almeno in termini di estensione- dipende dalla lunghezza, larghezza, massa anatomica delle corde vocali stesse e dalla loro componente elastica (a titolo puramente indicativo: do3-do5 per il soprano, la2-la4 per il mezzosoprano, fa2-fa4 per il contralto; do2-do4 per il tenore, la1-la3 per il baritono, fa1-fa3 per il basso).
La frequenza fondamentale della voce, la nota emessa dall’artista, corrisponde alla frequenza di vibrazione delle corde vocali ed è espressa in cicli di ondulazione al secondo (Hertz). Tale frequenza vibratoria è poi direttamente controllata dallo stato di tensione ed allungamento delle corde vocali momento per momento: ad elevati gradi di allungamento e stiramento corrisponde un cospicuo numero di vibrazioni al secondo (con emissione di toni acuti) e viceversa.
L’ampia gamma di estensione della voce umana comprende quasi cinque ottave: l’emissione della nota più grave del basso (Do l) comporta solo 65 vibrazioni al secondo mentre il Sol sovracuto del soprano di coloratura (Sol 5) corrisponde ad una frequenza di 1567 Hertz.
Per inciso, è dunque facilmente intuibile il motivo per cui, a parità di tecnica vocale, risultino più esposti alla possibilità di traumatismo (con potenziale formazione di lesioni o infiammazioni cordali) i cantanti a tessitura` acuta i quali, a parità di perizia tecnica, possono sottoporre le proprie corde vocali ad un numero molto più elevato di urti. Ecco perché è più facile sentire annunciare una indisposizione di un soprano o di un tenore piuttosto che di una voce più grave.
La sorgente della voce è controllata in parte dal flusso aereo che attraversa le corde vocali (a sua volta controllato dalle dinamiche respiratorie) e in parte dagli adattamenti delle corde stesse (a loro volta controllati dalla muscolatura laringea). Questi due fattori determinano il controllo sulla nota emessa (frequenza fondamentale), sul volume (intensità del suono) e su alcune caratteristiche timbriche legate al tempo di contatto tra le corde vocali durante la loro vibrazione.
L’altezza tonale, la nota, è determinata principalmente dalla tensione (elasticità) e dallo spessore (massa vibrante) delle corde vocali. La tensione viene variata dall’allungamento delle corde: le variazioni della lunghezza determinano perciò variazioni della frequenza di fonazione. Sono i muscoli intrinseci (vocale e cricotiroideo) a far variare tale lunghezza.
Particolarmente il muscolo vocale o tiroaritenoideo è considerato importante per i registri; finché è attivo la voce acquista quelle caratteristiche che la fanno inquadrare nel registro modale, mentre si riconosce l’emissione in falsetto non appena il muscolo vocale cessa la sua azione tensoria sulle corde vocali. Durante l’emissione in registro pesante, dunque, l’altezza tonale è innalzata per incremento d’attività del cricotiroideo con mantenimento di una buona attività del muscolo vocale.
Il meccanismo pesante corrisponde al registro “pieno”, o voce piena, a sua volta distinta, esclusivamente in base a fenomeni di consonanza vibratoria, in voce di “petto” (suoni gravi) e di “testa” (suoni acuti); il registro di falsetto corrisponde invece al meccanismo leggero.
I termini “pieno” e “falsetto”, sono inoltre equivalenti ai termini “modale” e “loft” della letteratura anglosassone, e risultano più familiari alla terminologia corrente tra i cantanti italiani.
Durante la vibrazione delle corde vocali il ciclo glottico è caratterizzato da una fase di chiusura e una di apertura. Con l’analisi glottografica è stato possibile rilevare che la funzione cordale durante l’emissione di suoni di petto presenta un tempo di chiusura glottica superiore al 40% di un intero ciclo vibratorio, mentre nel falsetto questo è inferiore al 40%; tali differenze del tempo di contatto cordale determinano particolarità spettrali distintive: la voce in falsetto, in cui il tempo di contatto è ridotto e il suono viene definito povero nel timbro e nel volume, presenta spettrograficamente armoniche solo fino verso i 2000 Hertz, mentre l’emissione vocale in registro pieno, in cui il tempo di contatto è alto, presenta armoniche almeno fino ai 4000 Hertz.
Il meccanismo pesante è perciò caratterizzato da una maggior componente armonica.
Le due definizioni che nella pedagogia artistico-vocale appaiono più frequentemente nell’ambito del meccanismo pesante, sono quelle di voce o registro di petto e voce o registro di testa, riferendosi, in maniera approssimata, l’espressione “di petto” al settore tonale più basso e “di testa” a quello più acuto. Tale modalità d’emissione è quella più usata nel canto lirico, con eccezione per le voci femminili o maschili-leggere negli acuti.
Nel descrivere i suoni emessi da un cantante lirico diciamo infatti che la sua voce è “piena” ed usiamo generalmente il termine voce “di petto” per riferirci all’emissione dei toni gravi, caratterizzati da un basso numero di vibrazioni al secondo; tale usanza è legata alla funzione contrattile del muscolo vocale che, accorciando la corda, ne incrementa la massa favorendo l’insorgenza di vibrazioni scheletriche dirette verso la cassa toracica. Parlare quindi di voce di petto significa fare riferimento a quel fenomeno percettivo di pienezza del suono che provoca, nel cantante, sensazioni di consonanza vibratoria soggettiva a livello muscolare e scheletrico proprio nella regione toracica.
In relazione a tale fenomeno di “vibrazione corporea” risulta evidente come sia preferibile l’espressione “registro pieno con consonanza di petto”, che caratterizza le regioni tonali grave e media delle voci maschili e quella grave delle voci femminili di mezzosoprano e di contralto.
Nel corso di un’emissione su toni ascendenti a intervalli di grado congiunto, entra gradualmente in attività il muscolo cricotiroideo che, situato all’esterno dello scheletro cartilagineo, allunga la corda. Grazie al mantenimento dell’attività tensoria del muscolo vocale, viene evitato il sollevamento della laringe e la conseguente riduzione dello spazio di risonanza: in tal modo viene permesso alla corda di vibrare in tutta la sua ampiezza ed il suono mantiene le sue qualità acustiche di pienezza. Le sensazioni vibratorie soggettive, essendo la corda ora assottigliata, si dirigono verso la scatola cranica.
Si comprende così come gli “acuti” possano essere definiti come suoni emessi in registro “pieno con consonanza di testa” e come siano invece da sfatare alcune scelte terminologiche improprie che, ad esempio, portano a definire “di petto” il Do acuto dei tenori che è invece una nota emessa a voce piena ma con sensazioni vibratorie “di testa”.
Appurato quindi come i termini “di petto” e “di testa” non siano i veri registri e si riferiscano esclusivamente all’apprezzamento soggettivo da parte dei cantanti di risposte vibratorie di alcune parti del corpo alle onde sonore prodotte dalla laringe, ricordiamo come i veri fenomeni di risonanza si verifichino in quelle cavità naturali (orofaringea e nasale) nelle quali il suono si propaga e che sono pertanto i veri “risuonatori”, su cui ci siamo soffermati nel numero di Marzo.
Dunque, benché fenomeni puramente di consonanza corporea siano stati etichettati come “registri”, dovremmo considerare come tali solo i fenomeni di origine laringea, per differenze di tempo di contatto cordale durante il ciclo vibratorio. Vengono invece definiti “registri secondari” quei fenomeni di natura risonantica caratteristici del canto lirico o comunque “colto” che connotano differenti qualità vocali nel settore acuto (voce aperta e coperta), legati a variazioni nella gestione delle cavità di risonanza dal passaggio di registro agli acuti.
Da quando Garcia visualizzò la laringe con uno specchietto oltre un secolo e mezzo fa, è iniziata tutta una serie di ricerche rispetto al meccanismo di produzione della voce e dei registri: da un lato le conoscenze scientifiche tentavano i maestri verso metodi diretti di manipolazione e sforzo vocale, con concetti del tipo “spingi giù”, “allarga”, “alza il palato”, ecc. Per reazione, la didattica, che volgeva la sua attenzione alla risonanza, attribuiva invece l’”origine” del suono in strutture altrove dalla laringe col fiorire, nei trattati, di immagini con distribuzione tonotopica del suono in varie parti del corpo, come quelli di Marafioti e Lilli Lehmann. Il suono, e in particolare il “bel” suono, veniva in quest’epoca localizzato ovunque tranne che in laringe. Più è morbido e rotondo più sarà recepito in basso o dietro, più è brillante più si dirà avanti o in alto. Ogni cantante sa in realtà come queste sensazioni propriocettive siano entrambe presenti: è l’equilibrio tra “cavità” e “punta” per dirla coi maestri, che dovrebbe annullare la dicotomia tra “anteriorità e brillantezza” da un lato e “profondità e morbidezza” dall’altro. A queste sensazioni sono stati invece spesso schematicamente correlati i due registri primari: il “registro leggero” con la “voce di testa”, correlandolo con l’impostazione del suono “in avanti, in alto”; quello “pieno” con il “petto” e la “ricerca di cavità”.
Analizzando l’evoluzione storica della pedagogia del canto, possiamo notare come l’abitudine a gestire il settore tonale acuto con atteg-giamenti in registro pieno si sia consolidata intorno ai primi decenni dell’Ottocento, con la ricerca dei cosiddetti meccanismi di “copertura” del suono, dettata da esigenze sia d’ordine stilistico ed estetico sia legate a motivi di natura psicoacustica ambientale: gli spazi e gli organici orchestrali tendevano, infatti, ad ampliarsi, comportando per l’emissione vocale problemi d’udibilità e di proiezione del suono. Si rendeva quindi necessario individuare una modalità di canto che potesse comunque emergere superando i notevoli livelli d’intensità orchestrale che ponevano sempre più problemi all’udibilità della nota fondamentale cantata dall’artista, in quanto stavano diventando sempre più intensi e acusticamente competitivi con le “note” da cantare.
Si giunse così a quelle “esagerazioni nervose e muscolari”, aborrite da Rossini, che avrebbero caratterizzato la vocalità romantica e l’evoluzione stilistica del melodramma, dirigendo il gusto estetico verso l’efficacia drammatica e la “portanza” vocale, e allontanandolo gradualmente dai concetti di bellezza ed omogeneità di colore su tutta la gamma tonale. Parallelamente, in nome di esigenze più legate ad evoluzioni estetiche che tecniche, venne meno il ricorso a quei “prodigi” vocali che aveva-no caratterizzato la prassi esecutiva belcantistica.
Il termine “copertura”, comparso nella didattica per spiegare il fenomeno dell’omogeneità timbrica nel passaggio dal settore medio a quello acuto dell’ambito tonale, è identificabile in una serie di fenomeni di adattamento delle cavità di risonanza nel momento del passaggio di registro che si concretizzano in un’abbassamento di laringe e mandibola, appiattimento della base linguale, allargamento del cavo oro-faringeo ed elevazione del velo palatino.
E’ dunque cosiderabile come un registro secondario, differenziando il colore vocale, ad esempio, dai suoni aperti, ipercinetici o con diffusione armonica.
Coprire i suoni permette di mantenere una certa uniformità di colore nel registro pieno durante ed oltre il passaggio agli acuti, consenten-do una buona udibilità per concentrazione dell’energia acustica nella zona di armoniche tra i 2500 ed i 3000 Hz, che viene definita “formante del cantante”. A questo fenomeno si associano, più o meno impropriamente, modi di dire quali “girare la voce”.
Le cavità di risonanza esercitano la loro influenza sulla configurazione delle corde vocali sia sul piano della ricerca del colore (chiaro, scuro, aperto, coperto) che sul piano strettamente articolatorio fonetico.
Per quanto riguarda il colore è essenziale ricondursi a due fenomeni acustico-percettivi: il primo è quello appena descritto della “copertura”, che nel ricercare il controllo di un ampio spazio ipofaringeo (come inducono i suggerimenti pedagogici dello “sbadiglio” e dell’ “affondo”) realizza una intensificazione formantica sui 2500-3000 Hz (la citata “formante del cantante”) dando rotondità e proiezione alla percezione del suono, più necessario alle voci maschili o a quelle femminili gravi. Il secondo è il fenomeno di intensificazione della nota fondamentale che si verifica nelle voci femminili sugli acuti, con netto guadagno di intensità vocale, che porta ad un notevole rinforzo in termini di udibilità della nota fondamentale, con sensazione di un suono più brillante. Esso viene realizzato aumentando sugli acuti l’apertura della bocca. Per questo motivo, a livello percettivo, quello che noi ascoltiamo maggiormente nelle emissioni maschili è soprattutto l’intensità della formante di canto, mentre nelle voci femminili non gravi la frequenza fondamentale potenziata dal rinforzo armonico.
Inoltre, durante la vibrazione, il contorno fisico delle corde vocali è fortemente influenzato dai fonemi vocalici, cioè dalla vocale che si sta cantando, a causa dell’azione pressoria retrograda sulle stesse determinata dalla messa in rapporto degli organi di articolazione della parola.
Insieme all’altezza e intensità, anche le vocali influenzano il rapporto di tensione tra cricotiroidei e tiroaritenoidei, come pure il carattere più aperto o chiuso della vocale scelta.
I sistemi muscolari intrinseci laringei possono allora essere influenzati ad un equilibrato utilizzo attraverso una scelta pedagogica di selezionate combinazioni di altezze, intensità e tipo di vocale, che costituiscono il bagaglio didattico della scuola di canto e che giustificano le preferenze dei maestri di canto verso questa o quella vocale per produrre una corretta emissione o correggere eventuali suoi sbilanciamenti.
Se, al contrario di quanto è stato appena descritto, si “sale” con la voce senza “coprire” il suono modificando l’atteggiamento degli apparati di vibrazione e risonanza, si ottiene uno spontaneo sollevamento della laringe con un conseguente stato di contrazione muscolare avvertibile come un senso di costrizione e di fatica fonatoria (si può dire che la voce diviene “spinta”, “pressata”) che conduce ad un punto in cui è impossibile risolvere l’equilibrio delle forze muscolari coinvolte senza incorrere in una “rottura” del suono. Poiché i cambiamenti di altezza tonale riflettono cambiamenti di rapporto tra le cartilagini cricoide e tiroide, possiamo affermare che i muscoli del collo che agiscono sulle posizioni della laringe possono cooperare con i cricotiroidei nel creare una tensione longitudinale. E’ infatti istintivo per i muscoli tiroioidei, muscoli del collo, innalzare la laringe al salire dell’altezza tonale. Essendo la cartilagine cricoide parzialmente ancorata all’esofago e alla trachea, ne deriva allungamento delle corde vocali. L’apparire di questa modalità fonatoria dimostra, in realtà, una incapacità tecnica sul controllo dell’altezza tramite i muscoli intrinseci della laringe.
Tale evento può comunque essere anche una scelta stilistica, come nelle frasi più tese di alcuni generi di musica leggera ad impianto prevalentemente melodico, come il pop e il belting.
Nella voce piena ma “spinta”, il tempo di contatto tra le corde vocali durante il ciclo vibratorio è notevolmente allungato (oltre il 60% dell’intero ciclo) e, a livello spettrale, si assiste a dispersione e scarso rinforzo armonico fino oltre i 5000 Hz.: il timbro vocale assume caratteristiche stridenti e compresse (da cui il termine di emissione “spinta” o “forzata”) perdendo quelle caratteristiche di “rotondità” proprie della corretta emissione lirica. In questo caso si parla di ipercinesia fonatoria. Modalità ipercinetiche vengono spesso sfruttate come scelta stilistica nella musica pop e rock (stile “graffiato”).
Esistono comunque, sia nel canto lirico che moderno, meccanismi di compenso attraverso lo sfruttamento dei risuonatori superiori per evitare gli atteggiamenti ipercinetici, con risultati non sempre accettabili sul piano estetico, almeno nel canto classico, come nel caso della nasalizzazione.