di Franco Fussi
Una possibilità d’emissione dei toni acuti è, notoriamente, quella di ricorrere al registro di “falsetto”. In tale modalità di fonazione, il sollevamento della laringe e la prevalenza d’azione della muscolatura cricotiroidea (con allungamento passivo delle corde vocali, senza contrasto da parte del muscolo tensore tiroaritenoideo), determinano la vibrazione del solo bordo libero delle corde vocali, con un tempo di contatto inferiore al 40% del singolo ciclo vibratorio. Il timbro vocale risulta perciò povero di armoniche (per la vibrazione del solo bordo), debole d’intensità (per la vibrazione del solo bordo e la riduzione della cavità di risonanza da sollevamento laringeo) e spesso correlato a sen-sazione percettiva di “fissità” (per rigidità di posizione della laringe su intervento della muscolatura estrinseca).
Il termine “falsetto” è probabilmente derivante dal tentativo di definire un timbro vocale “non vero”.
Per quanto concerne il suo utilizzo artistico, tale registro viene utilizzato dai tenori primi di cori polifonici per eseguire brani a tessitura molto elevata, nella tecnica “jodel” del canto popolare tirolese (caratterizzato da continui e repentini passaggi tra registro pieno e falsetto), nella country music e in repertori folkloristici in genere, nel canto pop, nell’opera dalle voci maschili per effetti comici e caricaturali, da alcuni tenori leggeri ad impostazione lirica per emettere note acute in “pia-nissimo” (ma anche da tenori “di forza” quando non sappiano adoperare le mezze voci!) e dai falsettisti nel repertorio rinascimentale e barocco.
Quando si canta in falsetto in maniera incolta, la voce è a volte “velata”, in quanto è presente un certo grado di fuga d’aria glottica causata da un incompleto affrontamento delle corde vocali nella regione posteriore. Ciò risulta dovuto alla mancanza di attivazione dei muscoli interaritenoidei, che sembra essere influenzata dalla modalità tesa d’emissione del falsetto, con collo e mento iperestesi (quasi a raggiungere fisicamente la nota acuta) e dall’attitudine a ricercare una posizione “trasversale” nell’uso dei risuonatori, con bocca allargata a perenne sorriso. E’ spesso un atteggiamento che si riscontra in allievi di canto che hanno avuto esperienze di canto liturgico o polifonico e ai quali veniva richiesto di “schiarire i suoni” e di non “forare”. Quando invece gli interaritenoidei sono attivi, il triangolo d’insufficienza glottica non è più presente, il suono non è più velato, e l’area glottica si chiude completamente ad ogni ciclo vibratorio.
I cosiddetti “controtenori” o falsettisti artificiali utilizzano invece un falsetto “rinforzato” ottenuto aggiungendo a tale meccanismo un abbassamento della scatola laringea che consente, tramite un incremento dei fenomeni armonici (per guadagno di spazio di risonanza), l’e-missione di un suono più ricco e rotondo nel quale sono tuttavia facilmente riconoscibili le caratteristiche del falsetto.
A questo proposito è utile chiarire che la distinzione compiuta da Rodolfo Celletti per distinguere tra falsettisti e castrati, attribuendo ai primi il termine di falsettisti artificiali e ai secondi quello di falsettisti naturali, non è del tutto appropriata. Il “naturale” conseguente risultato della castrazione è infatti la mancata crescita laringea e delle corde vocali che pertanto mantengono pressoché l’estensione dell’età infantile, estensione che per una voce maschile dopo la pubertà è possibile “imitare” solo attraverso il ricorso al registro di falsetto. Ma così come il “registro” delle voci bianche infantili è un registro pieno su un’estensione acuta, anche il registro del castrato è un registro pieno, vero, in tal senso “naturale”, e non una imitazione in falsetto. Il castrato non era un falsettista, semplicemente perché non usava un registro di falsetto. D’altro lato non si comprende perché l’uso del falsetto, nella voce maschile adulta, debba essere etichettato come artificiale: è un registro legittimo, un modo per emettere suoni in acuto, è falsetto e basta. Ecco perché la definizione di falsettisti, eventualmente distinti in sopranisti e contraltisti in base all’estensione, ci sembra la più adeguata a individuare le voci maschili che si muovono su tessiture di ambito tonale femminile.
Le analisi spettrografiche dimostrano che il cosiddetto “falsetto professionale” è caratterizzato da una gamma di diversi atteggiamenti tecnici possibili, e che la tecnica dei comunemente chiamati controtenori mostra rilievi non tipici del falsetto puro ma una sintonizzazione della prima formante alla frequenza fondamentale. Cioè l’intensità della frequenza fondamentale, della nota emessa, subisce un incremento, offrendo una maggiore pregnanza e incisività percettiva all’ascolto, con maggiore somiglianza del tono prodotto a quello di una voce femminile. In considerazione di ciò il foniatra tedesco Seidner ha proposto il termine di “male alto”, cioè “alto maschile”, al posto di controtenore, nella sua accezione di “falsettista artificiale”.
Un altro modello di utilizzo del falsetto è anche descritto come “stop-closure falsetto”, in cui le corde sono talmente compresse posteriormente che solo la loro porzione anteriore entra in vibrazione, raggiungendosi frequenze sovracute per effetto dell’abbasamento laringeo e della conseguente accresciuta tensione longitudinale. Tale modalità determina maggiore pressione sottoglottica e un maggiore coinvolgimento nella vibrazione del corpo cordale rispetto al bordo libero, dando luogo ad un suono quindi che ha caratteristiche più importanti in volume e in struttura armonica rispetto al falsetto puro e che, percettivamente e spettrograficamente, risulta analogo al registro medio degli acuti dei soprani liricoleggeri. E’ il meccanismo che fa la differenza tra la tecnica di tanti falsettisti (ad esempio, i controtenori James Bowman e Alfred Deller, gli alti René Jacobs, Alain Zaeppfel e Claudio Cavina) con quella di altre voci nelle quali si stenta invece a riconoscere, specie nella seconda ottava dell’estensione, la sorgente maschile dell’emissione (ad esempio, i sopranisti Aris Christofellis e Angelo Manzotti, l’alto Jochen Kovalski).
Come sappiamo, una buona prominenza di armoniche nella banda 2500- 3000 Hz riesce a prevalere sull’accompagnamento orchestrale (viene infatti definita “formante del cantante”), rendendo più energica e limpida l’emissione cantata di voci maschili e di voci gravi femminili in prima ottava, ad esempio i contralti. I cantanti più esperti ottengono tale effetto aumentando il volume della faringe grazie ad un abbassamento della laringe. I soprani possono ottenere un effetto acustico equivalente abbassando la mandibola al salire della nota, con ciò aumentando via via l’apertura buccale; anche le note più acute del contralto e quelle acute del tenore possono essere eseguite con tale manovra. In questo caso vi è un potenziamento della fondamentale su cui viene mantenuta accordata la prima formante: si parla di sintonizzazione tra prima formante e frequenza fondamentale.
Nelle emissioni dei toni acuti da parte dei sopranisti si rileva in maniera costante una persistente sintonizzazione tra frequenza fondamentale e prima formante, mentre non si evidenzia la formante di canto. Tuttavia le note gravi mostrano un inviluppo formantico con due concentrazioni di energia nettamente evidenti e distinte: la prima, di bassa frequenza, non più sintonizzata sulla frequenza fondamentale e la seconda di alta frequenza nella zona 2800-4000 Hz. Dunque, la tecnica di enfatizzazione della fondamentale tramite sintonizzazione della prima formante è utilizzata dal sopranista solo sugli acuti, mentre non è realizzabile sui gravi dove la prominenza di armoniche di alta frequenza potrebbe fare ipotizzare una sorta di enfatizzazione del tipo “formante del cantante”. Questo dà ragione degli squilibri timbrici che ascoltiamo in tali voci, dove ad acuti brillanti in cui è riconoscibile un registro di falsetto rinforzato, che simulano e si avvicinano alla qualità sonora femminile, e da essa distinguibili soprattutto per il corpo e volume del suono, si contrappongono emissioni di toni gravi francamente più androgine dove viene percettivamente disambiguabile l’origine maschile dell’emissione.
Ciò è ancora più evidente nell’emissione acuta dei contraltisti dove, oltre alla sintonizzazione tra frequenza fondamentale e prima formante, si nota una frequente amplificazione delle armoniche nella zona tra 2800 e 3400 Hz, cioè proprio dove si colloca tradizionalmente la “formante del cantante”. Niente di strano in fondo: il contralto è l’unica voce femminile nella quale ricorre spesso la presenza della formante del cantante.
Il contraltista sembrerebbe perciò utilizzare entrambi i meccanismi di enfatizzazione sfruttando così entrambe le tecniche di amplificazione,come in effetti avviene nel contralto.
La resa vocale del falsettista, su tutta la gamma tonale, è comunque diversa, e per alcuni musicologi insufficiente, rispetto a quella che doveva essere un tempo la vocalità del castrato: sia per volume, che per estensione, che per pienezza di suono (cioè ricchezza armonica), spessore nel registro grave, qualità d’emissione (suoni penetranti ma aspri nel falsettista), lontana comunque dalla particolarità e ricchezza di colori dei castrati. In effetti l’uso del falsetto professionale su tutta la gamma impone al falsettista una certa uniformità di emissione (e perciò maggiore “rigidità” di gestione delle cavità di risonanza) per realizzare da un lato la sintonizzazione tra frequenza fondamentale e prima formante (nella seconda ottava) ed evitare, per i toni gravi e centrali, il pericolo di scivolamento al registro modale (registro pieno maschile con consonanza di petto).
Confrontando la registrazione della voce del Moreschi, ultimo castrato della Cappella Sistina, con quella degli odierni falsettisti si evidenzia sicuramente una qualità armonica più ricca, un suono in un certo senso più pieno, ma un imbarazzante squilibrio tra i registri, con transizioni molto apparenti e grossolane tra gli ambiti tonali, e all’epoca della registrazione la voce del Moreschi non era certo in declino.
L’analisi della voce di un cantante ormai anziano (82 anni) affetto da ermafroditismo e perciò “spontaneamente” castrato dall’infanzia, può forse illuminare sulle potenzialità d’emissione di quelli che furono gli evirati cantori dell’epoca barocca.
Dalle indagini effettuate l’ermafrodito sembra unire, lungo la sua ampia estensione, modalità fonatorie che vanno, dal grave all’acuto, dall’emissione caratteristica della voce parlata all’uso del registro pieno con consonanza di petto, e poi di un registro misto a consonanza di testa. In queste trasformazioni della qualità acustica dell’emissione corrispondono, spettrograficamente, per le prime note, raggruppamenti formantici su un più ampio ambito armonico e a valori superiori a quelli classicamente individuabili come formante del cantante, e poi salendo la gamma, rinforzi formantici più simili alla formante del cantante, ma sempre più deboli, fino ad arrivare alla sintonizzazione della prima formante con la frequenza fondamentale nel settore acuto in registro medio con consonanza di testa. Quella del castrato era forse allora l’unione di tre voci in una? E’ forse per questo che nell’unica registrazione a noi pervenuta di un castrato, il Moreschi, oltre una più ampia gamma di colori e volumi rispetto al falsettista odierno percepiamo un imbarazzante ma netto scivolamento tra registri o modalità fonatorie diverse? Cosa che invece non notiamo nella più modesta (a livello di volume e ricchezza armonica) ma più timbricamente omogenea (fino ad apparirci noiosa e incolore) voce del falsettista.
Come ha evidenziato Gisela Rohmert, nell’antico simbolismo numerico di Pitagora l’ermafrodito è un 3: il 3 unisce dunque l’arte di fondere l’uno e l’altro, e così pure le frequenze acute della voce sopranile ai toni gravi dello speech maschile. Per i seguaci d’Orfeo, l’ermafrodito era all’inizio delle cose e poteva risolvere le dicotomìe.
Un allievo del Moreschi, Domenico Mancini, nato a Civitacastellana nel 1891, falsettista e non castrato, ci ha lasciato una testimonianza in una intervista registrata negli anni ‘50, che ci conferma sia la ambiguità terminologica usata per caratterizzare le voci di castrati e falsettisti, sia i citati elementi percettivi differenziali tra le due voci.
Egli diceva: “Da bambino avendo una buona voce, cantavo in chiesa a Civitacastellana. Una zia che era a Roma, venendo per le feste, ascoltandomi disse che avevo una bella voce. A Roma andava a messa a S. Pietro, e vedendo tutti quei cantori, avvicinò Moreschi, prese appuntamento e lui mi ascoltò e mi disse che con una preparazione mi avrebbe fatto portare alla scuola del maestro Perosi. Mi iniziò a dare delle lezioni, lui cantava e io dovevo imitarlo. Era una cosa meravigliosa, io ero incantato, ho iniziato imitandolo. Io lo imitavo con la voce perché, non avendo fatto il cambiamento della voce (cioè essendo ancora in epoca prepuberale non aveva compiuto la “muta” vocale e poteva cantare con voce “piena” infantile), cantavo come lui di petto (cioè con registro pieno, naturale), e poi prendevo la voce di testa (cioè sempre in registro pieno). Ma poi sui quattordici anni si prende la voce da uomo e allora cantando come i falsettisti (cioè in falsetto rinforzato, con la famosa sintonizzazione tra fondamentale prima formante) ho cominciato a prendere la voce di testa (intende appunto il falsetto rinforzato, visto che anche prima chiamava di testa anche il suono pieno sugli acuti emesso in periodo prepuberale), che tutti noi uomini abbiamo. Naturalmente bisogna esercitarla perché è una voce che si fa per esercizio, e con la musicalità (perché non è il falsetto incolto ma un “falsetto professionale”); bisogna essere musicali per poterla adoperare. Perosi non mi volle nella scuola perché avevo studiato con Moreschi, e per questo pensava che io fossi castrato, e allora non mi volle perché era venuto il motu proprio che eliminava le voci dei castrati dai cori. Quelli che c’erano, erano tenuti ad esaurimento e maturazione della pensione, ma i giovani non venivano ammessi. Perosi, siccome cantavo nel modo di Moreschi, ebbe l’impressione che io fossi di quelle voci là, e allora mi mise a S.Salvatore in Lauro. Quella del Moreschi era una voce di soprano, di vero soprano, che si differenzia da tutte le altre in quanto voce naturale (cioè non “falsa”) che canta tutto di petto (pieno), poi quando va in acuto prende la voce di testa, e allora si sente il cambiamento della voce dal petto a quella della testa, è come se fosse un tenore che dal mi bemolle passa alla testa. La tecnica era quella dei cantanti dell’epoca d’oro. Moreschi era stato a contatto dei grandi maestri di canto della sua epoca, un Mustafà, che è stato un grande cantante e maestro, o il Sebastianelli, nella Cappella Giulia e poi alla Sistina, che era un soprano acuto. Tra questi cantanti c’erano anche quelli che avevano l’”acutezza” del suono, potevano arrivare anche sino al do e oltre. Moreschi arrivava bene al si bemolle, ma era una voce grassa”.